di SILVIO DI GIOVANNI
E’ passato nello mio studio Toni Benelli, un vecchio amico e compagno di giochi che 69 anni fa abitava in campagna nel borgo “Levata” del Comune di Saludecio dove, io con la mia famiglia, eravamo ivi sfollati dal 28 gennaio 1944 per la guerra, nella casa di Gigio Piccari, un altro di quei compagni d’infanzia nel passaggio del fronte degli alleati anglo-americani. Sbrigato il breve colloquio di lavoro, non è mancata una piacevole reminiscenza dei ricordi di quella esperienza di vita che per me rappresentava una novità assoluta, oltre alla paura della guerra. Ricordo la penuria della vita agreste, l’acqua da bere non potabile, la paura delle squadracce dei fascisti repubblichini, il pericoloso fanatismo dei soldati tedeschi di occupazione, l’arretratezza culturale, l’analfabetismo diffuso, la superstizione e il pregiudizio che accompagnava tutta la vita delle famiglie dei lavoratori dei campi, sia dei contadini che dei piccoli possidenti del loro poderino.
Nel tempo della primavera, quando la coltura del campo sbocciava e le pianticelle crescevano dallo sviluppo del seme messo a dimora qualche mese prima, in fila tra l’una e l’altra pianticella di granoturco che svettava in alto, nel suo intervallo, prendeva piede la pianticella di fagioli o di cece o di zucca, ivi messe a dimora con apposito seme dall’agricoltore. Proprio in questa stagione di tarda primavera i grilli canterini e salterini che vivevano nel campo e si nutrivano delle foglie e delle radici di queste pianticelle appena in erba, distruggevano radicalmente quel tipo di modesto raccolto.
Veniva allora messa in atto, quale difesa da questi insetti, una singolare reazione da parte dei coltivatori di quei poderi, in quel 1944, quando io ero ivi sfollato. Veniva chiamato il prete della parrocchia di Saludecio, anzi per la Levata, della parrocchia di pertinenza che era quella della “Madonna del Monte” cioè della Chiesa ubicata nel trivio ove finiva la strada che proveniva dal borgo di San Rocco. Questo curato arrivava nel campo, accompagnato e guidato dal contadino, sul luogo del misfatto, perpetrato da intere colonie di questi insetti che appartengono all’ordine degli ortotteri, dotati di buon apparato masticatore con vorace capacità onnivora.
L’inviato della Chiesa, dopo aver legato il suo calesse al margine della strada, predisponeva i suoi paramenti talari sulla sua veste nera, poi con parole magiche scagliava l’acqua benedetta con l’aspensorio in varie direzioni dal luogo in cui si era posto. Evidentemente il rimedio non era né drastico, né dirompente e né inquinante, anche se c’è fortemente da dubitare che raggiungesse qualche scopo nella lotta agli insetti dannosi. Tuttavia i vecchi contadini ancora ci credevano e forse, ci credeva anche il prete? Un altro singolare ricordo che mi riempiva di curiosità (e poi da adulto, di riflessione sulla realtà di quei tempi che possono sembrare così lontani, ma che rappresentano forse ancora un dato di fatto sotto certi aspetti), era rappresentato dalla visita che faceva alle case, una o più volte al mese, un certo “Florie” così come veniva chiamato, un uomo già un po’ attempato ma non vecchio, miseramente vestito, che viveva in una singolare carità che gli veniva elargita con qualche regalo in natura, in cambio di preghiere ai Santi, alla Madonna, al Signore, che lui recitava nella cucina di casa ove abitualmente si sedeva in un angolo di quel reparto della casa colonica ove si svolgeva tutta la vita della famiglia contadina. Dicevano che venisse da Fanano di Gradara, percorreva la strada per Santa Maria di San Giovanni in Marignano, costeggiando i campi posti sulla sponda sinistra del Tavollo. Dirigendosi per Tavullia, svoltava poi a destra e saliva lungo la strada Via Torre, poi per lo Stradone arrivava nel borgo della “Levata” in Comune di Saludecio. Borgo agricolo con sette case di cui quattro piccoli possidenti e tre contadini di ampi poderi, più la corposa doppia casa colonica dei “Gagliaz” e dei “Curtel”, a poca distanza, ma su un’altra strada che, scendendo conduceva “ma la carbunera”.
Florie entrava con garbo in cucina, prendeva una sedia, si appartava in un angolo e poi, con la corona del rosario in mano, snocciolava per circa un quarto d’ora una sfilza di preghiere con voce abbastanza alta per farsi sentire, indirizzata ai vari Santi a pro dei defunti della casa nella cui cucina recitava a catena le orazioni supplicanti. Poi si alzava per predisporsi ad uscire, non senza porsi in fiduciosa attesa del compenso che era invariabilmente di alcune uova, oppure un pezzo di fomaggio, oppure un pezzo di lardo o un pezzetto di salame o di salsiccia secca o cose del genere. A volte la padrona di casa, nell’occasione del commiato, si lamentava che, per il compenso che gli veniva dato, lui aveva pregato troppo poco. Allora lui invariabilmente adduceva a suo merito che poi, uscito dalla casa ed in cammino sulla stradicciola che si allontanava dall’ultima casa dei Piccari, per la stradina che scendeva e attraversava il Tavollo, lui, per la strada continuava a pregare.
Curioso è il fatto che venivano incaricati uno o due bambini o ragazzini della famiglia contadina per correre in avanti e nascondersi non visti, al di là della siepe che delimitava il percorso, per origliare se poi veramente pregasse, quando camminando passava lungo questi solitari sentieri.
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