Per un artista l’impresa più difficile non è aggiungere, ma togliere. E le ultime opere di Cecchini sono proprio summa e sintesi delle sue molteplici ricerche e sperimentazioni. Il monocromo, complesso e semplice, l’assenza (di figura, di pennellate, ecc.) densa di presenze. Anche il colore diventa quasi impercettibile. Ma c’è il gesto! Lì dove corpo e mente si fondono, dove casualità ed esperienza trovano armonia, dove passionalità e tecnica trovano equilibrio. Spazio mentale e spazio fisico si toccano. Insomma, un linguaggio artistico in simbiosi perfetta tra artista e materia.
L’arte contemporanea è un “viaggio” non sempre facile e non sempre di immediata comprensione. Il merito del Centro culturale sta nell’avere privilegiato artisti e personalità che hanno fatto della propria ricerca una espressione al passo con le ricerche internazionali. Su questo tracciato si incontra Vincenzo Cecchini, personaggio a tutto tondo, figura centrale e ‘snodo’ allo stesso tempo delle correnti artistiche sviluppate nel riminese nel secondo dopoguerra.
Questa dimensione dell’essere per Vincenzo Cecchini è ben conosciuta dagli amici, dai compagni di vita e dalla città di Cattolica: Cecchini cantore e poeta, folgorante e struggente, disarmante e impertinente, che non disdegna l’impegno culturale e sociale.
Nato nel 1934, la sua esperienza artistica ha inizio negli anni ’50 quando entra in contatto con gli artisti della galleria Numero di Firenze; dalla metà degli anni ’60 al 1975, tranne un breve periodo milanese, lavora a Roma. Densissimo il suo percorso e le mostre realizzate curate da critici ed estimatori come Cesare Vivaldi, Enrico Crispoldi, Fulvio Abbate, Claudio Cerritelli, Angela Madesani, solo per citarne alcuni.
La mostra cattolichina ripercorre le fasi significative del suo percorso creativo dagli anni Cinquanta ad oggi, attraverso una selezionata antologia di opere che pongono in evidenza gli orientamenti di ricerca sospesi tra progetto ed esecuzione, spazio e materia, gesto e colore.
Il viaggio pittorico di Cecchini (con alcune parentesi figurative), inizia con un’attenzione verso i segni e le materie dell’informale, prosegue purificando il campo della superficie dall’invadenza del colore, sperimenta quindi la dilatazione spaziale di materiali termoplastici oppure le possibilità pittoriche della fotografia, per concentrarsi di nuovo sul valore della superficie come dimensione assoluta.
Se negli anni Settanta prevale la rigorosa analisi dei procedimenti di costruzione dell’immagine, nel decennio successivo la visione di Cecchini si concentra sulla vibrazione del segno in rapporto alle fluide consistenze della materia pittorica. Il colore oscilla come immagine instabile, inquieta, carica di energie contrastanti, le materie preferite sono colle e pigmenti puri utilizzati in funzione del monocromo, dimensione unitaria che rivela le molteplici persistenze della luce. Negli anni Novanta – fino al ciclo di dipinti più recenti- la pittura di Cecchini si affida a leggere stratificazioni e trasparenze cromatiche di sottile luminosità. Il colloquio tra gesto e colore procede attraverso impalpabili stesure di colore, sempre più legato al senso dell’invisibile, all’apparizione di forme che emergono al limite della percezione.
di Enzo Cecchini