Caro Gabo, nelle corsie degli ospedali non ci sono librerie. Forse è per questo che assomigliano tanto ai corridoi delle prigioni, vuoti e ariosi, dove anche lì il dolore e le speranze rimbalzano sui muri in un’eco infinita. Dopo otto giorni passati a combattere una polmonite, l’ennesima battaglia nella tua guerra contro il cancro, i medici della clinica Salvador Zubirán hanno avuto il buon senso di lasciarti tornare a casa, dove per lo meno potevi andartene circondato dall’affetto dei tuoi cari e dalle pagine dei tuoi romanzi. Se il Novecento è stato un mosaico di individui che ha mostrato il meglio e il peggio a cui la razza umana può arrivare, con te è scomparso uno dei suoi tasselli più luminosi.
Avevi 87 anni e il privilegio di sapere che il tuo nome era già stato inciso nel granito della Storia. A compiangerti non è solo la tua America Latina, la terra perennemente in bilico tra civiltà e barbarie, giungla e città, cronaca e mitologia che hai raccontato per tutta la vita, ma il mondo intero. Ha espresso il suo cordoglio persino Obama, cosa che ha dell’incredibile se pensi alla considerazione di cui godono i vecchi comunisti negli Stati Uniti. Non esiste biblioteca in cui le tue opere non aspettino gli occhi di un nuovo lettore; non c’è lingua sulla Terra che non abbia tentato di tradurre la tua voce. Il segno che hai lasciato è profondo come una delle tue metafore, ma qui in Italia molti ne ignorano il motivo. Vuoi perché da latini leggiamo poco, vuoi perché la letteratura in castigliano sembra avere ancora qualche difficoltà di diffusione. Tu chiaramente fai eccezione, eppure…
Ho capito la tua grandezza solo quando ho smesso di considerarti un nome da best-seller e ti ho studiato sui saggi. Non sono molti gli autori che possono vantare (da vivi) il riconoscimento universale della critica. Non mi riferisco al Nobel dell’82. Quello te lo han dato anche per le tue simpatie politiche, ammettilo. No, ho capito che eri uno scrittore immenso perché hai saputo sintetizzare tutti i contrasti e i paradossi del tuo continente rompendo con il razionalismo stantio del Vecchio Mondo e abbracciando l’immaginazione dei tuoi antenati precolombiani. É vero, Borges aveva infranto prima di te le barriere culturali del Sudamerica, ma con le armi e un estetica raffinatamente europee, mentre tu fondando il Realismo Magico hai creato un genere letterario che è unica espressione del Nuovo Mondo.
D’altronde la protagonista delle tue opere non è la piccola Macondo in cui hai ambientato l’epopea di “Cent’anni di solitudine” e i romanzi successivi, ma l’America stessa, in tutta la sua vastità straniante che miniaturizza l’uomo e lo spinge a credersi un dio. Se nel Nord del continente gli scrittori statunitensi si interrogano da sempre su come dominare le forze della natura senza violarla, influenzati dai residui di un imperialismo utopico e protestante, nel Sud le tradizioni sciamaniche e le paure di un cattolicesimo bambino hanno reso la natura una casa degli spiriti, un microcosmo dove la ragione deve cedere il passo alla fantasia. Al soprannaturale. E tu, Gabo, sei stato il maestro di questa tradizione. Hai cantato la tua terra su una melodia nuova e tuttavia comprensibile a chiunque. Per farlo, chiaramente, ci vuole un talento straordinario.
Come scrisse Carlos Fuentes: “La saga di Macondo e dei Buendía include la totalità del passato orale, leggendario, per dirci che non possiamo accontentarci della storia ufficiale, documentata; che la storia è anche tutto il Bene e tutto il Male che gli uomini hanno sognato, immaginato e desiderato per conservarsi e distruggersi”. Sei stato considerato senza esagerazione il Cervantes dell’America Latina e i nostri pronipoti continueranno a leggerti e a ricordarti come meriti. Resterai vivo nei tuoi romanzi finché nelle nostre case ci saranno librerie, finché sui muri delle nostre stanze non suonerà l’eco degli ospedali e delle prigioni. Dove non c’è posto per i libri.
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