(Articolo tratto da Blogging in the wind)
di Carlo Clericetti*
Un gruppo di paesi nordici ha preso posizione contro ogni eventualità che l’Ue vari programmi di investimento o contro la disoccupazione e richiamato al pieno rispetto del Fiscal compact. Oltre ad essere guidati dalle destre hanno in comune un peso rilevante delle esportazioni sul Pil, quindi per loro la domanda interna è meno importante. I danni delle politiche che puntano sulla “crescita a spese del vicino”
Mentre l’Italia è assorta nei suoi rompicapo politici, in Europa si continua a discutere delle prossime riforme dell’Unione, quelle che per noi non promettono nulla di buono, se vogliamo usare un eufemismo. Poco prima delle nostre elezioni, ma subito dopo la formazione del governo tedesco con Cdu-Csu e socialdemocratici, da otto paesi è giunta una presa di posizione con un rifiuto preventivo di possibili future iniziative di investimenti comunitari o altre “follie” del genere, come ad esempio il fondo europeo contro la disoccupazione proposto anche dall’Italia. Si tratta per lo più delle timide ipotesi avanzate da quel bolscevico di Emmanuel Macron, e già considerate con grande freddezza dalla Germania. Ma gli otto evidentemente temono che il rigore tedesco possa essere attenuato dall’accordo di governo con i socialdemocratici. Già dalle prime dichiarazioni un tale timore appare del tutto infondato, ma tant’è. Olanda, Svezia, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Estonia, Lettonia e Lituania mettono le mani avanti, richiamando anche al pieno rispetto delle regole del Fiscal compact.
Come nota l’economista Ruggero Paladini, tutti paesi piccoli, tutti con governi di destra e tutti con una caratteristica delle loro economie: il forte peso delle esportazioni rispetto al Pil. Solo la Finlandia è una parziale eccezione, con il suo 35 e spicci per cento, comunque più alto di Italia, Francia e Spagna.
Si capisce allora come mai siano così inflessibili riguardo al rigore sui conti pubblici. La loro politica è quella di crescere soprattutto con l’export, e dunque della domanda interna a loro importa poco. Specialmente l’Olanda – non a caso capofila dell’iniziativa – che ha un surplus verso l’estero addirittura superiore a quello della Germania (9% nel 2016, sempre secondo i dati World Bank), e quindi, mentre richiama gli altri al rispetto delle regole, è la prima a infischiarsene per quel che le fa comodo, oltre ad essere un noto paradiso fiscale. Anche l’Irlanda e i tre baltici hanno tasse sulle imprese scandalosamente basse, e spesso alle multinazionali non fanno pagare nemmeno quelle: i cosiddetti accordi di tax ruling sono passati, secondo l’ultimo rapporto della Commissione europea, dai 1.252 del 2015 ai 2.053 del 2016. E sono solo quelli che si conoscono…
Anche l’Italia si è avviata su questa strada: con 68 accordi siamo al quarto posto, dopo Lussemburgo (ma va?), Belgio e Ungheria. Fantastica prospettiva, quella di esentare praticamente dalle imposte le mega-imprese che guadagnano di più: altro che flat tax!
Ma torniamo alla crescita basata sull’export. Qualcuno potrà dire: e che c’è di male? Significa essere più bravi degli altri, visto che si vende più di quanto si compra. Un ragionamento sbagliato da vari punti di vista. Prima di tutto, bisogna vedere se davvero si è “più bravi”, o se invece non c’è sotto qualche trucco. Perché la concorrenza sulla qualità o sul vendere prodotti che gli altri non sanno fare può anche andar bene, ma se invece la concorrenza è sui salari significa far stare peggio una grossa parte dei propri cittadini, e così se il costo del lavoro è basso perché non si danno pensioni, non c’è assistenza sanitaria, non ci sono “paracadute” in caso di disoccupazione (non c’è welfare, insomma, o ce n’è molto poco). Per non parlare di norme sulla sicurezza e ambientali: anche quelle sono costi, ma è su quelle che si misura il grado di civiltà di un paese.
Ma se la concorrenza sugli standard sociali e ambientali è particolarmente odiosa, ci sono anche motivi macroeconomici per affermare che una crescita basata prevalentemente sulle esportazioni e l’accumulo di surplus nei conti con l’estero è pericolosa quanto quella di paesi che invece accumulano deficit. Non solo in questo modo ci si rifiuta di fare la propria parte nel far girare l’economia mondiale, ma si dà anche origine a squilibri che prima o poi generano crisi. Lo aveva ben presente Keynes, che alla conferenza di Bretton Woods del 1944 aveva proposto un meccanismo di riequilibrio che dividesse l’onere tra debitori e creditori.
Ma la proposta non piacque agli Usa, che in quella fase erano in surplus e soprattutto volevano un sistema basato sulla centralità del dollaro. Ma a questo principio viene riconosciuta validità, almeno in teoria, tanto che è entrato a far parte delle regole della costruzione meno keynesiana che esista, ossia l’Unione europea. E’ infatti uno dei punti della Macroeconomic imbalances procedure (Mip) che elenca i criteri per mantenere l’equilibrio macroeconomico. In modo un po’ sbilenco (il limite per il deficit è il 4%, per il surplus il 6; che, del tutto casualmente, era il livello di surplus che aveva la Germania quando la procedura è stata varata) e in modo assai meno cogente delle altre regolette su deficit e debito, ma comunque c’è. Quindi quando l’Olanda richiama al rispetto delle regole ha la stessa credibilità del commissario Pierre Moscovici che invita a rispettare i limiti al deficit, che la sua Francia da dieci anni non rispetta e che non l’ha fatto nemmeno quando proprio lui era ministro dell’Economia.
Gli otto paesi, insomma, hanno scritto un’altra pagina dell’Europa dell’egoismo, dove il principio supremo sembra essere non tanto la concorrenza, ma “beggar-thy-neighbor”, ossia “frega il tuo vicino”. Non una bella situazione in cui convivere, ma non si vede perché l’Italia debba prendere solo bastonate. Se questa è l’aria, sarebbe il caso di imbracciare il randello quantomeno per far rispettare la regola del surplus (che tra l’altro, visto che siamo anche noi in tale situazione, ci permetterebbe di fare politiche un po’ più espansive) e contro la concorrenza fiscale, invece di metterci anche noi su quella strada. Certo, ci vorrebbero governi seri: è lì che è il nostro deficit più pericoloso.
*Già direttore di Affari & Finanza di Repubblica