– Gino Magi detto “Gino d’Sociali”, classe 1926. Un pescatore tra i più stimati della nostra marineria, racconta.
“La mattina seguente uscimmo distanziati, il mare era in burrasca, aveva preso a soffiare una leggera bora e il mare era agitato. Quindi ritornammo in porto più tardi, la bora si era calmata, ma essendo l’ultimo giorno dell’anno le nostre intenzioni erano di non proseguire la navigazione, ma di fare festa. D’accordo con noi erano anche i militari tedeschi che facevano parte dell’equipaggio. Verso le ore 20 notammo due camionette delle S.S. da dove scesero i militari con il mitra spianato al grido di “Raus!”, costringendoci a riprendere il viaggio. Fu in quella occasione che un tedesco imbarcato con noi mi confidò che era stato a Cattolica per la costruzione della ciminiera dell’Arrigoni, (i tedeschi erano molto abili per questo tipo di costruzioni). Fummo costretti quindi a ripartire fortunatamente con tempo buono.
Ricordo alcuni particolari del bastimento su cui ero imbarcato: avevamo un motore tedesco della potenza di 120cv, tenevamo una “lancia” di salvataggio sempre in acqua. Questa barca era un veliero acquistato a Viareggio e portato a Cattolica all’incirca nel 1940. Sullo scalo di Cattolica venne allungato e dalla modifica raggiunse una portata di 260 tn. I vecchi Alberi di quando andava a vela, erano molto alti circa 22 metri e volutamente furono lasciati per volontà dell’armatore. Questo motoveliero era molto bello, raggiungeva una velocità di otto miglia e mezzo a pieno carico. In navigazione, il nostromo che era anche lui di Fano si trovò a fare il turno di guardia al timone ed era in stato di ubriachezza, quindi il capitano mi disse: – Gino, stai tu al timone perché di lui non mi fido; bisogna seguire con attenzione la rotta, anche perché ci sono numerosi tratti di mare minati. – “Alora am met mé mal timon”.
Eravamo ad una distanza di circa un chilometro da una imbarcazione all’altra e navigavamo in fila, noi ci trovavamo al centro della fila con due motovelieri davanti e due dietro. Erano circa le ventiquattro quando ci trovammo a quattro miglia precise al traverso del faro di Pedaso, che dista poco più di quattro miglia da San Benedetto del Tronto. Dovevo dare il cambio di guardia a prua (nel frattempo il fronte era arrivato più a Sud di Pescara), non feci in tempo neanche ad arrivarci quando sopraggiunsero due navi nemiche; queste con i bengala ci illuminarono a giorno e subito partirono dei colpi. In quel frangente noi cercavamo istintivamente la provenienza di questi colpi e vedemmo nel contempo due cacciatorpediniere inglesi, che la sera (questo lo scoprimmo dopo) avevano bombardato la città di Pesaro, colpendo le prigioni. Le stesse navi ci hanno subito localizzato perché avevano anche il radar che noi non avevamo.
Il nostro bastimento era munito di bonpresso da quando andava a vela. Le navi con il primo colpo centrarono il bonpresso facendolo volare in aria. I tedeschi che facevano parte del nostro equipaggio si misero in postazione con la mitraglia per rispondere al fuoco, ma le navi inglesi erano troppo distanti e noi eravamo muniti solo di una mitraglia a quattro canne da trentasei mm. Avevamo indossato il salvagente e di comune accordo abbandonammo la barca.
Nell’eseguire questa operazione, qualcuno di noi andò a tirare il battello sottobordo per salirvi, ma non ci riuscimmo. Il “paron” fece fermare il bastimento, ordinando di mettere la macchina in folle. Aveva girato leggermente il timone a dritta, il bastimento girava così piano piano verso terra. Noi continuammo a cercare di tirare la “lancia” sottobordo, ma non veniva perché si era incastrata la cima nel timone del bastimento, che era ancora quello molto ingombrante di quando andava a vela.
Così ci siamo buttati tutti in acqua, io mi ero già tolto le scarpe, la “lancia” di salvataggio era da noi distante circa venti metri. Nel frattempo arrivò un proiettile che colpì la cabina di comando. Un marinaio andò a disincagliare il timone dove era avvolta la cima della “lancia”, così riuscì a liberarla e noi salimmo a bordo; ma non tardò ad arrivare contro di noi una raffica di mitraglia. Eravamo dodici a bordo di questa scialuppa a remi di sei metri e remavamo verso terra. Le batterie costiere rispondevano al fuoco nemico, quindi noi ci trovavamo tra due fuochi, i proiettili delle batterie costiere avevano una gittata inferiore alla distanza delle navi inglesi.
Noi fummo i primi ad arrivare a terra, erano le tre dopo mezzanotte. Per fortuna era bonaccia e sulla spiaggia si radunò una gran folla di contadini e da uno di questi fummo ospitati in una grande casa colonica la quale si trovava tra la nazionale e la ferrovia. Vi era anche un’ampia stalla con i buoi, mangiammo uova e bevemmo caffé d’orzo, ci diedero delle sigarette, poi tutti a riposare nella stalla. Il sonno fu di breve durata perché mi sentì pizzicare il capo e scoprì che era un grosso topo. Il trambusto fu tale che misi in agitazione anche i miei compagni e così di comune accordo decidemmo di abbandonare l’abitazione per dirigerci verso la spiaggia, che da lì era distante circa trecento metri.
Era già l’alba, quelle albe chiare disturbate solo dal vento di bora, la visibilità era buona a tal punto che vedemmo in lontananza sul litorale dei sacchi di farina. Noi nel bastimento come viveri, oltre alla carne, lo zucchero, la margarina, avevamo anche circa 50 tn. di farina e i sacchi fuoriusciti dalla barca galleggiavano lungo la battigia e già si era formata della gente intenta a raccogliere questi sacchi di farina bianca. Sempre nella mattinata ci dirigemmo sulla strada nazionale, non senza avere ringraziato il mezzadro per l’ospitalità ricevuta.
La strada era frequentata da camion militari tedeschi su uno dei quali salimmo fino ad Ancona, lasciandoci nel rifugio di Porta Pia nei pressi del Mandracchio, un rifugio grandissimo nella montagna che poteva ospitare diecimila persone. Avrebbero dovuto portarci in albergo ma questi erano tutti abbandonati, ed allora fummo costretti a sistemarci in questo rifugio assieme alla popolazione di Ancona e dei paesi vicini, che non aveva possibilità di fare ritorno a casa. Rimanemmo nel rifugio quindici giorni, i nostri familiari (lo sapemmo più tardi) ci ritenevano morti. Terminate quelle due terribili settimane, riuscimmo a tornare a casa con un camion di fortuna. Nel frattempo i tedeschi che facevano parte del nostro equipaggio partirono per conto loro. Noi italiani eravamo due di Fano, due di Cattolica e i rimanenti di Chioggia e Venezia. Il camion era diretto a Mestre ed era tutto scoperto senza alcun riparo, abbiamo avuto un gran freddo, fortuna volle che quel giorno non pioveva!
Era circa le 12.30; ci fermammo davanti la chiesa di Cattolica dove scendemmo, mio padre e mia sorella abitavano in via del Porto. La casa di Gabicce la affittavamo solo d’estate ai villeggianti. Nel venire a piedi verso casa, passando vicino al Municipio mi fermai davanti all’abitazione di Ercole Pericoli “Colino” il quale riconoscendomi mi disse: – Oh!, t’ze té, côm a so cuntènt d’avet vést! -, poi aggiunse: – Al tu ba puret, l’é a chesa cal piegn! – (oh!, sei tu, come sono contento di averti visto. Tuo babbo poveretto, é a casa che piange).
Come ho detto mi credevano morto, allora non c’erano le possibilità di telefonare, si era in piena guerra.
Arrivai a casa e notai mio padre con la fascia nera da lutto al braccio e quando mi vide potete immaginare la gioia, la contentezza che nei momenti più solenni si esprime solo con lo sguardo”.
(continua)