– Piergiorgio Morosini, giudice a Palermo dal’92, è uno di quei concittadini che fa sentire a tutti il giusto orgoglio di appartenere a questa città. Impegnato in prima linea in una realtà drammaticamente diversa dalla nostra, opera con coraggio in un contesto territoriale dove la parola mafia non è
‘letteratura’ ma quotidianità altra.
All’inizio della sua carriera di magistrato si trovò subito al centro della stagione stragista che vide cadere Falcone e Borsellino. Collaborò con Gian Carlo Caselli e rimase, senza tentennamenti per un distaccamento più sicuro,
a operare in una zona ad alto rischio. Qualche anno fa si è occupato della scottante vicenda Cuffaro, presidente regione Sicilia, riguardante i suoi presunti contatti con la mafia. Morosini ha collaborato con numerose università italiane ed è componente dell’organo preposto alla formazione dei giovani magistrati.
Dal luglio 2006 è stato chiamato dal ministro Mastella a fare parte della Commissione Pisapia incaricata di redigere il nuovo Codice penale. Cattolica ha quindi l’onore di avere uno dei sei magistrati prescelti a redigere quest’opera importantissima e di rilevanza storica, considerando che l’attuale Codice penale, il Codice Rocco, risale al 1930.
L’impegno della Commissione Pisapia, partendo da una realtà socio-culturale completamente diversa da quella di 77 anni fa, dovrà adeguare ai nostri tempi quello che s’intende oggi per reato, relativamente ai vari ambiti: della persona, del patrimonio, del paesaggio, della finanza… Proprio il 28 giugno scorso, Piergiorgio Morosini, ha emesso una sentenza destinata a lasciare un segno significativo nella giurisprudenza italiana, appunto perché prende in considerazione l’attuale problematica del bullismo e riconferisce la giusta autorevolezza alla figura dell’insegnante nell’esercizio della sua funzione educativa, recentemente messa in crisi anche da atteggiamenti superprotettivi ‘a prescindere’, manifestati da genitori che a
volte si comportano peggio dei figli, come quelli che hanno picchiato l’insegnante per un brutto voto dato al proprio pargolo.
Il 28/01/06 un’insegnante di una scuola media di Palermo, aveva punito uno studente, facendogli scrivere per 100 volte “sono un deficiente”. Questo perché il ragazzo aveva impedito a un compagno di andare nel bagno dei maschi, sostenendo davanti ai coetanei che non poteva entrare perchè era ‘gay’ e che quindi doveva andare in quello delle femmine. Il ‘bulletto’ in fiore, perseguitava da tempo il compagno di classe, deridendolo pubblicamente per le sue, dal ‘bulletto’ presunte, tendenze omosessuali e
facendolo vivere in una dolorosa situazione di disagio.
La professoressa, quando quell’ennesimo episodio di prevaricazione si verificò, decise di dare al prepotentello una punizione speciale, visto che ormai le ordinarie misure disciplinari, come note e sospensioni, non sortiscono più l’effetto dovuto. Anzi, a volte sono addirittura vissute come ‘stelle di merito’ in un contesto scolastico e sociale dove sfidare le autorità e fare i ‘duri’, fa acquisire consenso nel gruppo dei pari, avidi di ‘modelli forti’ da seguire. E l’episodio, considerando il particolare ambiente socio-culturale e territoriale in cui si è verificato, acquista una valenza carica di riflessi inquietanti.
Si legge nelle 13 pagine della sentenza: “Si tratta della sistematica derisione e del tentativo di emarginazione del giovane G.A. ad opera di C.G. e B.L. avvenute colpendo il ragazzo di 11 anni con frasi aventi ad oggetto le ‘tendenze sessuali’… Contributi psicopedagogici segnalano le
conseguenze per la vittima di certi atti, consumati in contesti scolastici caratterizzati da minori in età adolescenziale. E sono la tendenza a chiudersi in atteggiamenti ansiosi e insicuri e il calo progressivo di
autostima suscettibile di produrre un’immagine negativa di sè in quanto persona di poco valore e inetta.
Le vittime di atti simili di bullismo possono desiderare di non andare più a scuola, colpevolizzandosi per attirare le prepotenze e l’aggressività dei compagni. In certi casi, subire comportamenti intimidatori, può portare a gesti gravi di autolesionismo e a tentativi di suicidio, come attestano recenti fatti di cronaca. Gli studiosi sostengono che la prepotenza, se non tempestivamente stigmatizzata e contrastata, può pervadere le relazioni tra compagni di classe ed essere accettata come condizione normale dei rapporti interpersonali e sociali”.
Il ragazzo B.L. che aveva fatto da spalla al bulletto C. G., chiese scusa a G.A. davanti tutta la classe mentre C. G. non lo fece, non essendo minimamente preoccupato della cattiveria compiuta, nonostante i tentativi dell’insegnante di farlo ragionare. Per cui l’asserzione “deficiente”, spiegò la professoressa, si riferiva all’etimo “deficere” e significava in
quel caso specifico: “mancante”. Insomma, come testimoniò la classe, ‘l’insegnante non disse deficiente a C.G. ma glielo fece scrivere per indurlo a ragionare e a capire i propri sbagli’. I genitori del bulletto, invece di preoccuparsi delle poco edificanti inclinazioni del figlio,si costituirono parte civile contro l’insegnante accusandola di “abuso dei mezzi di correzione e disciplina”. Conclusioni della sentenza di Morosini: “E’ da ritenersi lecito l’uso del mezzo pedagogico-disciplinare da parte dell’insegnante nei confronti di C. G. in quanto rispettoso dell’incolumità fisica e morale del minore e indispensabile alle concrete circostanze in cui si trovava ad operare, al raggiungimento d’importanti obiettivi attraverso un’opera di convincimento e
persuasione. L’azione dell’insegnante era improntata anche a evitare che l’agire impunemente in quel modo, portasse C.G. a una progressiva assunzione di comportamenti antisociali”.
Peccato che nessuno abbia potuto infliggere ai genitori del bulletto , che evidentemente si sentivano punti sul ‘loro particolare senso dell’onore’, la stessa punizione che la professoressa aveva giustamente dato al loro figliolo.
di Wilma Galluzzi