Tratto da lavoce.info
di Lucia Rizzica, ricercatrice presso il Servizio Struttura Economica della Banca d’Italia dal 2012
Per rispondere alle carenze messe in evidenza anche dall’emergenza sanitaria, il governo si appresta ad assumere nuovo personale pubblico. Dovrebbe farlo con una visione di lungo periodo, che tenga conto degli effetti delle scelte degli ultimi anni.
L’evoluzione dell’occupazione pubblica
In diversi comparti chiave del settore pubblico le dotazioni di personale si sono rivelate numericamente e qualitativamente inadeguate a fronteggiare l’emergenza sanitaria legata al Covid-19. Con l’ausilio delle risorse finanziarie straordinarie messe a disposizione e sulla scia dei provvedimenti già delineati lo scorso anno, il governo si appresta ora a reclutare rapidamente e massicciamente nuovo personale. Una ricognizione delle politiche di gestione del pubblico impiego adottate negli ultimi anni e dei loro effetti sulla dimensione e sulla composizione della compagine può aiutare a cogliere meglio alcuni aspetti di questa fase critica e contribuire a un disegno più efficace e duraturo degli interventi.
La figura 1 mostra l’evoluzione aggregata della forza lavoro pubblica dal 1980 al 2019: a una rapida e significativa espansione negli anni Ottanta, sono seguite una prima forte contrazione nel corso degli anni Novanta e una seconda a partire dalla metà degli anni Duemila. Tra il picco del 1992 e il 2019 il calo è stato di quasi 500 mila unità (il 13 per cento), tale da determinare un ritorno su livelli prossimi a quelli dell’inizio degli anni Ottanta.
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Un recente lavoro analizza le politiche adottate nell’ultimo decennio e prova a quantificarne gli effetti più in dettaglio.
Secondo i dati riportati della Ragioneria generale dello stato, tra il 2008 e il 2018 il numero di dipendenti pubblici è diminuito, a parità di enti, di quasi 300 mila unità, l’8,3 per cento. Si tratta del quinto più significativo ridimensionamento tra tutti i paesi Ocse nello stesso periodo; riduzioni più significative si sono registrate solo in Grecia, Lettonia, Lituania e Regno Unito.
Il blocco delle assunzioni
La riduzione, imposta dall’esigenza di contenere la spesa pubblica, è stata ottenuta principalmente mediante l’imposizione di limiti alle assunzioni di nuovo personale, secondo le norme sul cosiddetto “blocco (parziale) del turnover”. A partire dal 2007 (e fino al 2018) le leggi di bilancio e una serie di decreti specifici hanno previsto la possibilità di procedere all’assunzione di nuovo personale nel limite del 10-25 per cento di quello cessato.
I vincoli non sono stati applicati in maniera omogenea tra comparti e sul territorio o perché superati da discipline specifiche (è il caso, ad esempio, della scuola) o perché combinati con restrizioni legate alle condizioni di bilancio delle singole istituzioni.
Ne è scaturito un quadro eterogeneo: nelle università, nei ministeri e negli enti locali il numero di addetti è diminuito di circa il 20 per cento, mentre i comparti più grandi – scuola e Servizio sanitario nazionale – hanno subito una riduzione relativamente meno marcata (figura 2). Tali dinamiche vanno però lette e valutate in combinazione con l’evoluzione della domanda dei servizi forniti. Nella scuola il rapporto tra gli addetti del comparto e la popolazione con meno di 15 anni, dopo una riduzione nei primi anni, è tornato a livelli prossimi a quelli del 2008. Invece tra il 2008 e il 2018 il Sistema sanitario nazionale ha perso circa 50 mila addetti contro un aumento di circa 1,8 milioni di persone della popolazione con oltre 64 anni di età.
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A livello geografico, invece, è stato il Mezzogiorno a subire la contrazione più forte (7,6 per cento, contro 4,1 per il Nord e 4,5 per il Centro). La riduzione ha portato il Sud ad avere un numero di dipendenti pubblici in rapporto alla popolazione residente nel complesso più vicino a quello delle regioni del Nord (circa 53 ogni mille abitanti al Sud, 49 al Nord). Permangono tuttavia significative differenze nella composizione settoriale. La più ampia riguarda proprio il personale del Servizio sanitario nazionale: il 25 per cento della forza lavoro pubblica al Nord e solamente il 17 al Sud. La differenza si riflette nelle dotazioni in rapporto alla popolazione: 51 addetti ogni mille anziani al Nord e 43 al Sud. Nel confronto non consideriamo le regioni del Centro poiché includono la maggior parte dei lavoratori delle amministrazioni centrali dello stato.
L’impatto sulla struttura demografica
L’imposizione di restrizioni sul turnover del personale pubblico ha inevitabilmente inciso sulla composizione demografica della compagine. L’età media dei dipendenti pubblici è aumentata rapidamente attestandosi nel 2018 oltre i 50 anni, 7 anni in più che nel 2001.
Come documentato dall’Ocse, lo sbilanciamento demografico, dovuto alla sotto-rappresentazione della componente più giovane, rappresenta una peculiarità del nostro paese (tavola 1). E pone vincoli al rinnovamento e all’aggiornamento delle competenze, alla digitalizzazione della pubblica amministrazione e all’efficienza produttiva in generale, vincoli che difficilmente possono essere superati solamente con l’ausilio di politiche di formazione continua del personale.
Le evidenze raccolte mettono certamente in luce l’improrogabile necessità di assumere personale più giovane in tutti i comparti della Pa, al fine di sfruttare meglio le complementarietà esistenti tra le diverse fasce d’età. Rimane invece la difficoltà di fare valutazioni circa l’efficienza dei processi produttivi nei servizi pubblici data la generale difficoltà di misurazione dell’output in questa branca dell’economia. Verso questo obiettivo vanno indubbiamente orientati gli sforzi della comunità scientifica e della Pa stessa, che deve essere in grado di produrre e condividere dati affidabili sui propri processi di produzione.
*Le idee e le opinioni espresse in questo articolo sono da attribuire all’autrice e non investono la responsabilità dell’istituzione di appartenenza.