Tratto da lavoce.info
di Elisa Brini, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento
Stefani Scherer, professore di Sociologia all’Università di Trento
e Agnese Vitali, professoressa Associata di Demografia presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento.
Lo svantaggio lavorativo delle donne registrato in vari paesi durante la pandemia ha portato molti a parlare di “she-cession”: una recessione che, in campo lavorativo, ha colpito soprattutto le donne. Ma in Italia i numeri dicono qualcosa di diverso.
Si può davvero parlare di “she-cession” in Italia?
In Italia hanno fatto molto discutere i numeri, diffusi da Istat a febbraio 2021, sul calo dell’occupazione femminile tra dicembre e novembre 2020. Il dato aggregato relativo al tasso di occupazione per sesso pubblicato dall’Istat per la classe di età tra i 15 e i 64 anni, mostra che quello femminile è diminuito di 1,1 punti percentuali nel 2020 rispetto al 2019, mentre quello maschile di 0,8. Tendenze di uno svantaggio più forte per il lavoro femminile si trovano in altri paesi.
Da un’analisi attenta dei dati della statistica ufficiale sulle forze lavoro non emerge un netto peggioramento dell’occupazione femminile. Ad esempio, le donne sopra ai 35 anni non hanno subito uno svantaggio in termini occupazionali rispetto agli uomini. Vediamo i dettagli per la fascia d’età 25-59 anni, definita “prime earning age”, sulla base dei micro-dati trimestrali della Rilevazione continua sulle forze lavoro. La scelta di questa fascia d’età esclude di fatto i giovani ancora in istruzione – prevalentemente donne – e la forza lavoro già orientata verso la pensione. Diversamente da altri, includiamo tutta la forza lavoro, autonomi e dipendenti nel pubblico e nel privato, indipendentemente dal settore. La figura 1 mostra l’andamento dell’occupazione. Tra il secondo trimestre 2019 e 2020, la percentuale di chi si dichiara occupato (includendo i cassintegrati o chi ha preso ferie) diminuisce di 1,3 punti percentuali tra gli uomini e di 1,7 per le donne. Le differenze sono più contenute nel terzo trimestre e spariscono del tutto nel quarto. La differenza di 0,5 punti percentuali fra uomini e donne nel tasso di occupazione è sufficiente per poter parlare di “she-cession”? Per rispondere consideriamo anche indicatori alternativi al tasso di occupazione.
L’analisi sulle ore lavorate
Poiché essere occupati durante un lockdown non implica aver effettivamente lavorato (guadagnando il 100 per cento dello stipendio), consideriamo gli occupati che hanno lavorato almeno un’ora nella settimana di riferimento. La percentuale di occupati si riduce sensibilmente nel secondo trimestre del 2020, ma il calo riguarda più uomini che donne: -10,8 punti percentuali per le donne (da 56,3 per cento nel secondo trimestre 2019 a 45,5 per cento nel 2020), e -14,5 punti percentuali per gli uomini (da 78 a 63,5 per cento). Nel terzo trimestre del 2020, invece, la ripresa dell’occupazione ha riguardato soprattutto gli uomini: quella maschile ritorna ai livelli del 2019, mentre per le donne rimane (leggermente) inferiore. La penalizzazione scompare nel quarto trimestre: qui la riduzione del lavoro non dimostra rilevanti differenze di genere, ma casomai si concentra, di nuovo, sugli uomini.
Anche guardando alle ore lavorate, che diminuiscono per tutti già dal primo trimestre 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019, la riduzione è maggiore per gli uomini –i quali, in partenza lavoravano più ore– (figura 2), indipendentemente dall’inclusione o meno nel campione di coloro che non hanno lavorato nella settimana di riferimento.
Figura 2 – Ore medie lavorate nella settimana di riferimento dagli occupati in età 25-59 anni, per sesso e trimestre (2019-2020) con intervalli di confidenza al 95 per cento
I settori chiusi durante la pandemia sono a maggioranza femminile?
È stato detto che i settori in cui sono prevalentemente occupate le donne sono anche quelli che hanno sofferto di più la crisi. Nel 2019, alla vigilia della pandemia, nel settore del commercio, le donne italiane sono sotto-rappresentate (e non sopra-rappresentate): sono solo il 42 per cento del totale degli occupati nel settore, un dato inferiore alla media europea del 49 per cento, e sono appena il 51 per cento nell’alloggio e ristorazione (tabella 1)
Abbiamo ricostruito, per ciascun settore, il grado di chiusura delle attività imposto dai più importanti decreti del presidente del Consiglio dei ministri (i famosi Dpcm) emanati tra marzo e maggio 2020. Durante la prima fase del lockdown, il 54 per cento delle donne sul totale delle occupate è in settori “aperti” o “quasi aperti” a marzo e aprile, contro il 39 per cento degli uomini (figura 3). Il quadro cambia in seguito al Dpcm del 26 aprile 2020 che, con effetto a partire dal 4 maggio, determina la riapertura della quasi totalità dei settori economici.
Considerando tutta la forza lavoro in età 25-59 anni e misurando chi ha lavorato almeno un’ora nella settimana di riferimento, in Italia l’occupazione femminile non è stata più colpita rispetto a quella maschile durante la pandemia. La situazione potrebbe cambiare con lo sblocco dei licenziamenti (Anastasia 2021). Il quadro è leggermente diverso per i più giovani, che noi abbiamo escluso dalle analisi perché, tra gli under-25, gli attivi nel mercato del lavoro sono una parte selettiva della popolazione che rende difficile una generalizzazione.
La narrazione “pubblica” sullo svantaggio occupazionale delle donne rischia di oscurare un peggioramento della situazione lavorativa complessiva, spostando su una dimensione identitaria una questione che invece ha a che fare con la distribuzione dei rischi occupazionali (indipendenti dal genere) e quindi della disuguaglianza sociale. Inoltre, l’accresciuto carico di lavoro non retribuito per le donne durante la pandemia non si sostituisce, bensì si somma, al lavoro retribuito. La gestione simultanea dei due carichi di lavoro rappresenta un problema, di cui la politica dovrebbe occuparsi seriamente. In quest’ottica, ben venga la decisione di riaprire le scuole e i nidi anche in zona rossa, almeno fino alla prima media.