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Home Economia

Economia. Riformare il capitalismo si può. Ma come?

Redazione di Redazione
12 Maggio 2021
in Economia
Tempo di lettura : 4 minuti necessari
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Vignetta di Cecco

Vignetta di Cecco

 

Tratto da lavoce.info

di Ugo Colombino, professore Emerito di Economia (dipartimento di Economa e Statistica Cognetti De Martiis di Torino)

Sono varie le posizioni e le proposte sulla “riforma del capitalismo”. Da una parte l’idea di coinvolgere tutti gli attori nelle decisioni produttive, anche per creare buoni posti di lavoro. Dall’altra, si punta a privilegiare politiche pro-mercato.

Uno schema che aiuta la discussione

Un recente contributo di Dani Rodrik e Stefane Stantcheva offre uno schema utile per organizzare, confrontare e discutere le varie posizioni e proposte sulla “riforma del capitalismo”. Su di un lato della loro “policy matrix” ci sono tre classi sociali o fasce di reddito (basso, medio, alto). Sull’altro lato abbiamo tre tipi di politiche a seconda del loro rapporto rispetto agli stadi del processo produttivo (pre-produzione, in-produzione, post-produzione). Le politiche pre-produzione sono quelle che intervengono sulla “dotazione”: istruzione, leggi sull’eredità, trasferimenti universali e così via. Le politiche post-produzione sono le tradizionali politiche sociali o liberal-democratiche: trasferimenti condizionati, sostegno dei disoccupati, tassazione progressiva. Le politiche “in-produzione” intervengono direttamente sulle decisioni produttive: per esempio, il salario minimo, le licenze per l’attività imprenditoriale, i controlli su assunzioni e licenziamenti, i “tavoli” di concertazione tra gli stakeholder (lavoratori, imprenditori, cittadini, “territorio”). Ciascuna casella della matrice contiene le politiche rilevanti per una data combinazione tra classe sociali e stadio del processo produttivo.

La “prosperità inclusiva”

Qual è la motivazione di questo contributo? Si tratta dei processi riconducibili a globalizzazione, progresso tecnico, liberalizzazioni e de-regolamentazioni (e quel che di solito viene etichettato come “neo-liberismo”). Mentre c’è un consenso pressocché universale sui benefici aggregati di quei processi, una nutrita e variegata maggioranza di politici, economisti e politologi sottolinea la crescita – attuale o prevedibile – di vari tipi di diseguaglianze e di inefficienze con conseguenze problematiche anche sull’equilibrio politico (per esempio, crescita di populismo e nazionalismo).

Leggendo altri scritti di Rodrik e Stantcheva, la loro opinione risulta chiara: le politiche pre e post-produzione hanno sostanzialmente esaurito il loro compito e nella situazione presente sono poco efficaci. La nuova frontiera sarebbe quella delle politiche in-produzione formulate in chiave “comunitaria”. Si tratterebbe di coinvolgere direttamente (attraverso concertazione, cooperazione e altro) tutti gli stakeholders nelle decisioni produttive. Soprattutto al fine di sostenere la creazione di buoni e stabili posti di lavoro.

The common strikes back

Rodrik e Stantcheva sostengono l’opportunità di varie politiche in-produzione sulla base delle esternalità generate dalle decisioni produttive. Le innovazioni tecniche rendono obsolete tecnologie e competenze, distruggono o riallocano posti di lavoro, hanno effetti negativi sulle comunità locali. Quindi si richiede un controllo pubblico (statale o “comunitario”).

Qui, a ben vedere, c’è una imprecisione: quelle sono esternalità pecuniarie. Certo riducono il valore di altre tecnologie e competenze obsolete. Ma questo non è un fallimento di mercato. Al contrario, è la manifestazione del buon funzionamento del mercato. I nuovi valori di mercato forniscono segnali per nuove scelte di investimento e nuove scelte educative. Il che naturalmente non esclude che le politiche pubbliche (anche di tipo pre e post-produzione) possano accelerare e sostenere l’adattamento ai nuovi scenari. Il fatto è che i due autori vedono il sistema economico come un “common”, cioè come un nesso di risorse comuni e di esternalità, dove le decisioni di ciascun operatore impattano direttamente (non, o non solo, tramite i prezzi) sugli altri operatori. Lasciato a sé stesso, questo sistema genera effettivamente un esito inefficiente. È interessante notare che l’economia di mercato consiste proprio in un tentativo – in buona parte riuscito – di spezzare l’unitarietà del common (quella che genera esternalità) tramite l’assegnazione di diritti di proprietà e il loro possibile scambio. Per le inefficienze del common, tuttavia, ci sono anche soluzioni diverse. A parte quelle che si affidano a strumenti fiscali (giudicati poco efficaci da parte di Rodrik e Stantcheva), ci sono la gestione centralizzata e la gestione “comunitaria” (per esempio, Elinor Ostrom). È su questa seconda e terza via che sembrano orientati Rodrik e Stantcheva. Su posizioni analoghe troviamo anche altri economisti, ad esempio, Thomas Piketty.

Una impostazione pro-mercato

Ci sono esempi promettenti di soluzioni “comunitarie” nel web. Ma si tratta di liberi accordi tra agenti che operano comunque in un mercato. Se imprenditori, lavoratori, cittadini trovano utile discutere e decidere in modo “comunitario” non c’è motivo perché non lo facciano. Ma tutt’altra cosa sarebbe un disegno politico che imponga questo tipo di relazioni. Il rischio delle soluzioni “comunitarie” è che tutto si riduca a un commissariamento politico-burocratico dell’attività di impresa o a interminabili “tavoli di confronto”.

Una impostazione alternativa a quella “comunitaria” suggerirebbe di privilegiare, anche per le politiche in-produzione, quelle pro-mercato. Una prima osservazione è che le trattative e gli accordi tra gli stakeholder potrebbero configurarsi come scambi di diritti di proprietà – proprio come avviene già in molti casi per gestire le esternalità ambientali – e perciò potrebbero essere organizzate formalmente come un mercato (certo anche con il supporto di istituzioni pubbliche). Più in generale, la via verso la prosperità non può prescindere dalle politiche in-produzione a favore di concorrenza, libertà di accesso, produttività ed elasticità di risposta agli incentivi. D’altra parte, le politiche pre-produzione, lungi dall’aver esaurito il loro ruolo, sono largamente sotto-sviluppate. Il reddito di base universale è realizzato – in dimensioni molto modeste – solo in Alaska e in Iran. Eppure, esperimenti in vari paesi trovano effetti positivi sull’efficienza delle scelte educative, occupazionali, produttive e di consumo. L’istruzione pubblica di base è quasi universalmente adottata, ma i metodi educativi sono sostanzialmente fermi a quelli di molte generazioni passate e rappresentano probabilmente il caso di tecnologia meno innovativa. Un numero crescente di studi certifica l’importanza degli investimenti sui bambini in età pre-scolare. Jim Heckman e i suoi collaboratori, utilizzando dati longitudinali, stimano un rendimento di questi investimenti compreso tra il 7 e il 13 per cento. Dotazioni iniziali (diritti di proprietà, asset di capitale umano o finanziario, accesso al credito) troppo disuguali implicano potenzialmente enormi perdite di efficienza (vedi ad esempio i lavori empirici di Oriana Bandiera e Maitreesh Ghatak e i contributi teorici di Samuel Bowles e Herbert Gintis).

Secondo questa diversa prospettiva, la nuova frontiera potrebbe proprio essere il massiccio sviluppo delle politiche pre-produzione (tra l’altro più semplici da realizzare), anche in connessione con altri sviluppi in direzione pro-mercato delle politiche post-produzione. Ad esempio, le innovazioni tecniche nella gestione dei dati permettono una valutazione sempre più precisa di rischi, vulnerabilità e affidabilità. Questo può condurre a una più massiccia diffusione di servizi di credito e assicurazione, che amplino le opportunità per le famiglie e accompagnino efficacemente le tradizionali politiche assistenziali.

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