Tratto da lavoce.info
DI ENRICO D’ELIA, economista, ha lavorato al Mef, all’Isae, all’Istat, all’Eurostat e all’Ipi ed ha diretto vari progetti di cooperazione internazionale
Cambi fissi, deindicizzazione dei salari e riduzione dell’intensità energetica della produzione dovrebbero diminuire l’impatto dei rincari di gas e petrolio. Qualsiasi politica di ristori comporta costi attuali o futuri simili a quelli dell’inflazione.
Quali beni sono rincarati
In Italia, negli ultimi dodici mesi, i prezzi all’importazione dei beni sono aumentati mediamente dell’8,5 per cento, trainati soprattutto da quelli dell’energia (+41 per cento), ma anche dei grassi vegetali e animali (+20 per cento), metalli (+20-25 per cento) e chimica di base (+18 per cento). Per il paese si tratta di una “bolletta” aggiuntiva di circa 30 miliardi di euro l’anno, che assorbe risorse pari a circa l’1,8 per cento del Pil.
L’impatto dei rincari sui prezzi finali dovrebbe essere molto inferiore al passato, soprattutto grazie all’evoluzione della tecnologia e del mix produttivo, sempre più orientato verso settori a bassa intensità di energia. Uno sguardo alle serie storiche dei conti nazionali italiani mostra che negli anni Settanta e Ottanta ogni punto di inflazione esterna era associato a un aumento medio dei prezzi al consumo di 6-8 decimi: l’impatto è sceso sotto i 6 decimi dopo l’abolizione della scala mobile e si è ridotto a 3-4 decimi con l’ingresso nell’euro. Se è così, gli attuali rincari si tradurranno al massimo in 2-3 punti di inflazione in più rispetto a quella prevista prima della crisi (1,5 per cento).
Lo conferma anche una simulazione basata sulla più recente matrice input/output simmetrica, che descrive la struttura dei costi di produzione in 62 settori economici nel 2017, consentendo di calcolare l’effetto dei prezzi all’import e della remunerazione dei fattori. La metodologia utilizzata è quella descritta qui. Tali stime rappresentano un “tetto” rispetto a metodi di calcolo più sofisticati, perché presuppongono che domanda e tecnologia restino invariate e che l’offerta di moneta “assecondi” i rincari. I principali risultati dell’analisi sono riportati nella Tabella 1.
Gli effetti sui consumi finali
Ponderando i rincari all’importazione settoriali registrati effettivamente negli ultimi dodici mesi con il rispettivo peso sull’aggregato di riferimento (desumibile dalla matrice), l’effetto diretto sui prezzi alla produzione dovrebbe essere di due punti e quello sui beni e servizi destinati al consumo di un punto. A regime, l’impulso iniziale si propagherà a tutti settori con un impatto, stimato in base alla struttura delle interdipendenze settoriali, di 2,8 punti sui prezzi complessivi e 1,8 sui consumi. Le nostre esportazioni rincarerebbero invece del 3,8 per cento (meno della metà dell’aumento dei prezzi all’import), senza gravi pregiudizi per la competitività del Made in Italy.
Le imposte indirette nette (come Iva e dazi, al netto dei contributi alla produzione) sono generalmente proporzionali ai prezzi finali (eccetto le accise e poco altro). Sommandole all’impulso iniziale proveniente dall’estero, la matrice (attraverso un processo iterativo) prevede rincari di 3 punti sul complesso dei beni e servizi e di 1,9 per quelli acquistati dalle famiglie. Anche se i margini netti di ricarico delle imprese salissero proporzionalmente ai costi, l’aumento complessivo dei prezzi sarebbe del 3,5 per cento e quello per le famiglie del 2,6 per cento.
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Benché non esistano più meccanismi di indicizzazione dei salari, è probabile che la contrattazione collettiva tenga conto dell’andamento dell’inflazione. Se l’indicizzazione dei salari ai prezzi al consumo fosse completa, anche questo fattore andrebbe a sommarsi all’impulso inflazionistico iniziale. La variazione complessiva dei prezzi raggiungerebbe allora il 6 per cento e il costo della vita per le famiglie crescerebbe del 5,2 per cento (che però verrebbe esattamente compensato da un analogo aumento dei redditi).
Applicando queste variazioni al valore dei corrispondenti aggregati rilevati prima della pandemia (per non partire dai livelli minimi raggiunti nel 2020, che determinerebbero una sottostima degli effetti), i costi di produzione aumenterebbero da 70 a 80 miliardi, se si esclude il caso estremo di indicizzazione completa di salari e profitti. Tuttavia, senza nessun adeguamento dei salari, le famiglie subirebbero una contrazione dei redditi tra i 20 e i 30 miliardi circa, che potrebbe pregiudicare la ripresa dell’economia.
A parità di attività economica, senza una sterilizzazione della base imponibile rispetto all’inflazione, il fisco registrerebbe un extra-gettito tra 5,5 e 11 miliardi delle imposte indirette nette, cui si aggiungerebbero tra 7 e 13 miliardi di maggiori imposte dirette.
Finora il governo ha stanziato circa 10 miliardi per ridurre le bollette di imprese e famiglie, che bastano a compensare quasi tutto l’aumento automatico delle imposte indirette nette nel caso estremo di indicizzazione completa dei salari, ma non quello delle imposte dirette. Tuttavia, nel medio periodo eventuali ristori finirebbero per scaricarsi nuovamente sui contribuenti sotto forma di imposte e debito. Quindi possiamo decidere di sopportare qualche punto di inflazione in più oggi oppure aumentare la pressione fiscale e l’indebitamento nei prossimi anni, ma non possiamo pretendere di alleggerire la bolletta energetica gratis e per tutti.
*Le opinioni espresse in questo articolo non coinvolgono in alcun modo le istituzioni con cui collabora l’autore.
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