Tratto da lavoce.info
DI RONY HAMAUI, professore a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e presidente di Intesa Sanpaolo ForValue
Vladimir Putin è al potere in Russia dal 1999, con un consenso interno rimasto sempre alto. L’andamento di tre variabili macroeconomiche aiuta a capire le ragioni economiche della sua popolarità. E forse a prevederne le mosse nel prossimo futuro.
L’economia russa nel 1999
Tre grafici, o meglio tre variabili macroeconomiche, possono aiutarci a narrare in maniera accurata la saga di Putin negli ultimi vent’anni e forse a prevederne il destino: il tasso di cambio rublo-dollaro, una variabile che reagisce velocemente agli umori dei mercati finanziari internazionali e alla capacità delle autorità monetarie locali di contrastarli (Figura 1); l’inflazione calcolata attraverso la variazione dei prezzi al consumo, che misura la perdita del potere d’acquisto delle famiglie e del valore della ricchezza nazionale (Figura 2); il tasso di crescita del reddito pro-capite in termini reali, da sempre un buon indicatore dello stato di salute di un paese e spesso del consenso alla leadership che lo guida (Figura 3).
Vladimir Putin viene nominato primo ministro nell’agosto del 1999 ed eletto presidente della Federazione Russa nel marzo dell’anno successivo, in una situazione economica drammatica e non molto diversa da quella che vide sorgere in Germania il terzo Reich nel 1933. In pochi anni, il tasso di cambio del rublo si era svalutato del 2000 per cento, poiché si era passati dalla storica parità di 1 a 1 nei riguardi del dollaro a quella di 1 a 20. L’inflazione viaggiava a tre cifre, mentre il Pil pro-capite si era dimezzato e nel 1998 era stato dichiarato il default dei titoli pubblici (vedi grafici). Il repentino passaggio da un’economia pianificata a una di mercato, intrapreso dal primo presidente liberamente eletto Boris El’cin (1991-1999), su indicazione del Fondo Monetario Internazionale e di numerosi economisti neoliberisti americani (la così detta “terapia shock”), aveva portato il paese a una tremenda crisi economica. Le privatizzazioni selvagge avevano creato una nuova classe di oligarchi vicini al potere politico, mentre il tasso di povertà, di criminalità e di corruzione era aumentato in maniera esponenziale. La Russia fu anche costretta ad accollarsi tutti i debiti della vecchia Unione Sovietica seppure la sua popolazione si fosse dimezzata. Anche in questo caso, l’analogia con i debiti di guerra fatti pagare alla Germania con il Trattato di Versailles del 1919 sono evidenti.
In pochi mesi Putin riesce a sedare le spinte separatiste in varie regioni, tra cui la Cecenia, ma soprattutto a rallentare la svalutazione del rublo, a tenere a bada l’inflazione e far ripartire l’economia. Aiutato da un prezzo del petrolio in crescita, il reddito pro-capite salirà per oltre un decennio, superando i livelli pre-crisi. In questo contesto la popolarità di Putin non può che aumentare enormemente. Nel marzo del 2004, è dunque rieletto per il secondo mandato con il 71 per cento dei consensi. In quegli anni, tuttavia, inizia anche un progressivo processo di riforma antidemocratico (si pensi alla nomina presidenziale dei governatori regionali) e una crescente repressione del dissenso interno (si veda la morte della giornalista Anna Politkovskaja).
Una popolarità mai scalfita
Alla fine del secondo mandato da presidente, Putin si fa eleggere di nuovo primo ministro, una carica a cui poco prima aveva assegnato, con una discussa riforma, numerosi poteri sottratti al presidente. Così nell’estate del 2008, Putin in prima persona gestirà con la spada la crisi in Georgia, che finirà con il “riconoscimento dell’indipendenza” delle province dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud, mai accettata dal governo georgiano. Il rublo perde il 20 per cento del suo valore, l’inflazione passa dal 9 al 14 per cento e il reddito pro-capite compie una brusca frenata, complice anche la crisi finanziaria che in quegli anni colpisce duramente l’Occidente, ma la situazione rimane sotto controllo.
Nel 2012 Putin viene rieletto per la terza volta presidente della Federazione Russa, dopo una riforma costituzionale che ne allunga a sei anni il mandato. Due anni dopo la Crimea viene annessa, grazie al sostegno militare fornito alle forze filorusse nella regione e a un referendum mai riconosciuto a livello internazionale. Il deterioramento dei rapporti con l’occidente e le sanzioni da questo imposte portano a una svalutazione del 60 per cento del rublo nei confronti del dollaro, un raddoppio dell’inflazione (dall’8 al 16 per cento) e una caduta del reddito pro-capite.
Da allora l’economia russa non si è più ripresa in maniera significativa e il rublo ha continuato a scivolare lentamente. Ciononostante, nel maggio del 2018, Putin viene rieletto presidente per il quarto mandato, con il 76,7 per cento dei suffragi e un’affluenza del 68 per cento.
Certamente la crescente censura sui mezzi di comunicazione e la violenta repressione dei potenziali rivali può spiegare il risultato, ma rimane il fatto che ancora quattro anni fa il forte messaggio nazionalistico di Putin godeva di una vasta popolarità, che evidentemente è riuscita a contrastare una situazione economica in progressivo deterioramento. Questo ha probabilmente convinto Putin che la conquista del Donbass, o meglio di tutta l’Ucraina, fosse un’operazione militarmente possibile e politicamente vantaggiosa. Dopo l’apertura delle ostilità, anche a causa delle pesanti sanzioni economiche imposte dall’Occidente, il rublo si è svalutato del 60 per cento, benché la banca centrale, con il raddoppio dei tassi d’interesse, sembri intenzionata a non perdere il controllo sulle variabili monetarie. Vedremo nei prossimi mesi di quanto si ridurrà il reddito pro-capite russo (qualcuno ottimisticamente stima -5/8 per cento), ma con un prezzo dell’energia alle stelle è difficile pensare a un calo talmente violento che porti a una rivolta popolare o di palazzo in grado di detronizzare Putin prima della scadenza naturale nel maggio 2024. Tuttavia, se una mezza sconfitta militare, accompagnata dalla morte di migliaia di ucraini e russi, dovesse portare alla perdita del controllo del cambio e dei prezzi, forse il presidente russo sarebbe indotto a trovare una soluzione negoziale prima di vedere la sua posizione definitivamente compromessa.
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