Tratto da lavoce.info
DI PIETRO ICHINO, è stato professore straordinario di diritto del lavoro nell’Università di Cagliari; dal 1991 è professore ordinario della stessa materia nell’Università statale di Milano
Negli ultimi cinque anni si è confermata la tendenza al superamento di un’anomalia italiana: l’ipertrofia del contenzioso giudiziale in materia di lavoro. Tramonta l’idea che la protezione delle persone che lavorano non sia veramente tale se non passa per le aule dei tribunali.
Una diminuzione del flusso dei procedimenti giudiziali tra il 50 e il 90 per cento
Che il contenzioso giudiziale in materia di lavoro tendesse a ridursi e che l’Italia si stesse allineando per questo aspetto agli altri maggiori paesi dell’Ue si era incominciato a rilevarlo già alla metà del decennio passato, per merito del monitoraggio sistematico avviato con la legge Fornero del giugno 2012. I dati forniti ora dal ministero della Giustizia indicano che la tendenza a una netta diminuzione delle cause nel settore si è confermata nell’ultimo quinquennio.
Non sono purtroppo disponibili dati omologhi a questi (cioè confrontabili, in quanto rilevati dalle stesse fonti e con lo stesso metodo) per gli anni precedenti. Si può comunque presumere che la tendenza alla riduzione del flusso delle controversie abbia avuto inizio prima del 2012, per effetto di alcune norme tendenti a una deflazione del contenzioso: per esempio la legge n. 183 del 2010, il cosiddetto “collegato-lavoro”, ha molto probabilmente dato un contributo rilevante alla riduzione del contenzioso in materia di contratto a tempo determinato e di licenziamento, riducendo i termini per l’impugnazione, determinando un risarcimento-standard per il caso di nullità del termine apposto al contratto e in qualche misura anche ridefinendo lo spazio della possibile impugnazione delle clausole contrattuali. È altrettanto plausibile che un contributo determinante a consolidare la tendenza alla riduzione delle cause su queste materie, secondo quanto il legislatore si è consapevolmente proposto, sia stato dato dalla legge Fornero del giugno 2012 e dai decreti attuativi del Jobs act del 2015.
Una parte dei giuslavoristi ha protestato a suo tempo vibratamente contro questo intendimento perseguito dal legislatore nel corso della XVI e della XVII legislatura, auspicando un ritorno a un più ampio ruolo del magistrato nelle controversie di lavoro, identificando l’aumento del grado di protezione delle persone con l’aumento del grado di “giuridificazione” del rapporto di lavoro e con il conseguente aumento dello spazio di sindacabilità giudiziale delle sue modalità di svolgimento e cessazione. Dietro l’opposizione alle scelte compiute dal legislatore c’è sicuramente una sincera preoccupazione per la protezione dei lavoratori; ma vi è motivo di pensare che ci sia anche una più o meno consapevole preoccupazione per la perdita del ruolo di avvocati e giudici, che nei decenni passati era stato notevolmente sovradimensionato.
Il progetto cui in parte si sono ispirate le riforme dei licenziamenti sia in Francia sia in Italia
Vent’anni or sono Olivier Blanchard e Jean Tirole proposero al governo francese una riforma della materia del licenziamento per motivi economici mirata a ridurre drasticamente il contenzioso giudiziale, affidando interamente al legislatore di determinare l’entità della “copertura assicurativa” che il contratto di lavoro deve garantire al lavoratore, cioè la soglia fino alla quale la perdita conseguente a una sopravvenienza negativa deve essere sopportata dall’impresa. Il progetto, che conserva tutta la sua attualità, prevede che, salvo il caso di mancanza grave del lavoratore, in qualsiasi altro caso di licenziamento l’impresa sia tenuta a pagargli un determinato indennizzo: se è disposta a pagare il severance cost, ciò evidentemente significa che la perdita attesa dalla prosecuzione del rapporto è di entità superiore (salvo il caso che l’imprenditore nasconda motivi discriminatori o di rappresaglia, che spetterà comunque al giudice accertare se il lavoratore li denuncia). I due economisti spiegano che il grado di sicurezza offerto alla persona che lavora dipende dall’entità dell’indennizzo, suscettibile di essere liberamente determinata dal legislatore; ma è comunque più vantaggioso per la persona essere protetta da un indennizzo certo che da uno subordinato all’esito di un giudizio.
La riforma dei licenziamenti compiuta con le leggi del 2012 e del 2015 non si è spinta fino al punto teorizzato da Blanchard e Tirole; ma ha compiuto un buon passo nella direzione da loro indicata, prestabilendo i limiti minimo e massimo dell’indennizzo gravante sull’impresa e così, indirettamente, l’entità del “contenuto assicurativo” implicito nel contratto di lavoro. Prima di allora, la posta in gioco in una causa in materia di licenziamento era pressoché illimitata, poiché dalla decisione del giudice dipendeva se il lavoratore restava con un pugno di mosche in mano, oppure otteneva la reintegrazione nel posto di lavoro più un risarcimento che poteva arrivare a diverse annualità di retribuzione (secondo la durata complessiva del procedimento giudiziale). L’incertezza dell’esito era elevatissima, dipendendo in larga parte anche dalla collocazione del magistrato nell’ampia gamma che va da quelli più “pro-business” a quelli più “pro-labour”. E gli studi sulla propensione delle parti interessate a rivolgersi al giudice insegnano che il volume del contenzioso su una determinata materia dipende essenzialmente dal grado di prevedibilità dell’esito del giudizio: maggiore è l’incertezza, più alto è il numero dei ricorsi giudiziali. Fino al 2012, dunque, la posta in gioco potenzialmente enorme combinata con un grado di incertezza molto elevato circa la decisione finale determinava le dimensioni abnormi del contenzioso giudiziale italiano rispetto agli altri paesi della Ue.
Una “riforma strutturale implicita” molto incisiva
Le riforme dell’ultimo decennio precedente alla legislatura attuale, sia in materia di contratto a termine (con l’abolizione della “causale” e la predeterminazione dei limiti temporali e di organico) sia in materia di licenziamento (con la reintegrazione prevista per i soli casi di motivo illecito e la predeterminazione dell’entità dell’indennizzo dovuto nel caso in cui il giudice ritenga il licenziamento ingiustificato), sono state mirate a predeterminare il grado di protezione della persona che lavora riducendo notevolmente l’incidenza dell’alea giudiziale. È dunque del tutto plausibile che la riduzione del contenzioso risultante dai dati riportati sopra sia per buona parte imputabile a queste riforme. E se così fosse, questa sì sarebbe una riforma strutturale che l’Italia potrebbe presentare a Bruxelles come un rilevantissimo “compito a casa” di armonizzazione del sistema rispetto agli altri paesi membri eseguito con successo.
Il rischio per i lavoratori di essere licenziati non è aumentato; quando il licenziamento per motivi economici viene intimato, l’indennizzo si colloca oggi pur sempre a livelli nettamente superiori rispetto a quanto accade negli altri paesi della Ue. Ma la nuova disciplina legislativa della materia fa sì che l’accordo fra le parti sia ora molto più facile e immediato. Questo, certo, toglie molto lavoro giudiziale agli avvocati, i quali sono per questo aspetto i soli veri danneggiati dalle riforme in questione. Anche se sono stati in molti in Parlamento e nelle istituzioni, durante quest’ultima legislatura, ad adoperarsi perché il loro lavoro torni ad aumentare.
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