La flat tax viene presentata come uno strumento di semplificazione, ma per essere sostenibile dovrebbe complicarsi con un sistema di detrazioni e deduzioni o risultare molto onerosa per i meno abbienti, con un’aliquota unica elevata.
La flat tax propugnata da Salvini e sposata, salvo che per una diversa e maggiore aliquota, da Berlusconi, viene presentata come una concreta forma di semplificazione e di riduzione del prelievo fiscale. Niente conteggi arzigogolati: si paga il 15 ( o il 23) per cento degli introiti punto e basta. Il messaggio è davvero efficace, soprattutto perché arriva diretto e comprensibile. E la materia fiscale ha bisogno proprio di questo (comprensione) in una campagna elettorale “corta”. Il messaggio è però pieno di verità nascoste e, per fortuna, anche le sue critiche possono arrivare dirette e comprensibili.
La prima critica è che la flat tax per tutti, proprio perché strutturalmente ugualitaria, mette sullo stesso piano ricchi e poveri negando, quindi, nei fatti, qualsiasi forma di progressività (secondo cui i ricchi devono pagare proporzionalmente più dei poveri) come voluta dall’articolo 53 della Costituzione. A questa obiezione si risponde che è il sistema nel suo complesso che dev’essere progressivo e non la singola imposta. Se, quindi, l’Irpef fosse trasformata da progressiva (com’è oggi) in proporzionale (questo fa la flat tax), resterebbe costituzionalmente legittima. Il sistema potrebbe, infatti, trovare altrove la sua progressività. Vero. Sennonché, nella restante parte del sistema fiscale italiano, non vi è alcuna imposta progressiva (neppure l’attuale versione dell’imposta sulle successioni e donazioni lo è), né i sostenitori della flat tax si danno pena di identificarla o crearla da zero.
I promotori della flat tax rispondono piuttosto che la progressività si può ottenere anche attraverso un certo dosaggio di detrazioni e deduzioni. Vero anche questo. Ma, se occorre ricorrere a dosaggi di detrazioni e deduzioni, il sistema si ricomplica di nuovo e il vantaggio della semplificazione viene meno del tutto.
Se poi si volesse semplicemente mantenere la Flat Tax così com’è adesso (riservata, cioè, alle sole partite Iva con volume d’affari inferiore a 65 mila euro), magari aumentando solo la dimensione di fatturato, si insisterebbe su una stortura intollerabile visto che – a parità di introiti – dipendenti e pensionati pagherebbero (come oggi già pagano) ben di più delle partite Iva.
La seconda critica attiene, invece, al gettito. Una flat tax generalizzata costa molto. Le relative stime danno risultati molto diversi fra loro, ma di massima se ne valuta il costo in un importo che oscilla fra 30 e 60 miliardi di euro l’anno. Può certo identificarsi un punto d’equilibrio tale per cui gli scaglioni attuali dell’Irpef possono essere sostituiti da un’aliquota unica che dà luogo allo stesso gettito complessivo. Le simulazioni fatte in proposito portano, però, pur con tutte le riserve del caso, a individuare tale aliquota in un numero superiore a 30. Consegue che qualsiasi aliquota inferiore al 30 per cento darebbe luogo a una perdita di gettito. Ed è ovvio che questo difettuccio verrebbe ulteriormente amplificato ove si ricorresse – anche solo in casi limite – all’utilizzo di correttivi quali le detrazioni e deduzioni.
Rispondono i sostenitori della flat tax che la perdita di gettito verrebbe, tuttavia, adeguatamente compensata dalla riduzione dell’evasione, perché gli evasori – che pure hanno un cuore – non se la sentirebbero di continuare ad evadere di fronte ad un sistema così amico come quello tratteggiato dall’avvento della flat tax! Insomma, la copertura sarebbe frutto di una migliorata collaborazione contribuente-fisco che va certo stimolata: ma che, per quanto condivisibile, non risulta aver prodotto storicamente quantomeno immediati risultati tangibili quando basata sulla mera riduzione dell’onore fiscale nominale. Né le regole di contabilità pubblica prevedono una qualche deroga che consenta di tradurre in introiti stimabili la “buona predisposizione a versare”.
C’è poi una terza critica che deriva da valutazioni di struttura economica del Paese. Da un lato, si lamenta l’eccessiva frammentazione delle attività economiche, d’impresa o professionali. Occorrerebbe, quindi, contrastare questo fenomeno con politiche che stimolino l’aggregazione piuttosto che dare ragioni all’atomizzazione. Ebbene, la flat tax va controcorrente, avvantaggiando le microstrutture, per di più individuali, rendendo meno convenienti le aggregazioni. Un vero contributo all’antimodernità.
Insomma, la flat tax ha una sua logica precisa e comprensibile: funziona se se ne accetta l’asocialità che la caratterizza (il primo 1 per cento è uguale al restante 99 per cento) e se si aumentano le altre imposte – quelle diverse dall’Irpef – o se ne creano di nuove. Un costo forse troppo alto per inseguire il mito della semplificazione.
DI TOMMASO DI TANNO, ha insegnato diritto tributario nelle Università di Roma (Tor Vergata), Siena e Cassino ed è docente al Master Tributario dell’Università Bocconi
Tratto da lavoce.info
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Foto di Raten-Kauf da Pixabay