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Missiroli, quel direttore del Corriere della sera che cercava casa a Montefiore

Redazione di Redazione
8 Luglio 2025
in Focus, L'altra pagina, Montefiore
Tempo di lettura : 4 minuti necessari
A A

GLI UOMINI

di Gabriele Paci

– “Per scrivere certe cose mi ci vorrebbe un giornale” diceva Missiroli, romagnolo nato in Emilia, da direttore del Corriere della Sera. Essere ai vertici ‘del’ quotidiano italiano per antonomasia non scalfiva la sua convinzione. Certe cose non le si potevano raccontare, certi giudizi dare.
Il ‘principe ereditario’ del giornalismo esordì a quindici anni, collaborò con Leonardo e La Voce prima di approdare al Resto del Carlino di cui divenne Direttore nel ’19, a soli trentatrè. Amico del faentino Pietro Nenni (prima repubblicano, poi socialista) avversò radicalmente il fascismo nascente, e quando Mussolini riuscì a farlo cacciare passò, nel ‘21, al Secolo di Milano. Lo scambio di accuse, e contumelie, tra i due s’infiammò (“Schiavisti agrari”, “Missiroli è perfido gesuita e solennissimo vigliacco”) sino al duello alla spada nel maggio successivo, con il pur inesperto giornalista che, reduce da una full immersion schermistica di ventiquattro ore, riuscì a vincere scalfendo il polso del Duce del fascismo. Che ad ottobre, con la Marcia su Roma, lo divenne anche degli italiani. E per Missi, come lo chiamavano gli amici, divenne durissima.
E qui sta la ragione per cui, cominciando a raccontare padri e madri (chi, del nostro stesso sangue romagnolo, ha fatto cose da ricordare e con le quali confrontarsi), fratelli e sorelle (che ‘fuori confine’ stanno facendo cose rimarchevoli che spesso proprio noi non conosciamo), amici e amiche (che amano le nostre terre, magari anche stabilendovisi), abbiamo voluto, con scelta antiretorica, partire da lui. Un genio impastato di coraggio e vigliaccheria, un antifascista che da vittima divenne complice e poi nuovamente si ribellò, un ‘Don Abbondio in redazione’ che amava i giornali ma non le notizie. Per non dimenticare e prendere atto dell’impasto di contraddizioni di cui siamo fatti. Come ci ricordava, ragazzini, quel (brutto ma efficace) monumento resistenziale a saponetta davanti al Comune di Cattolica: “L’italiano per ben vivere, deve bene ricordare”. Chissà che fine ha fatto; se ancora da qualche parte esiste non sarebbe male ritirarlo fuori.
Ricordare, appunto. Anche l’alternarsi di bene e male. E Mario Missiroli (Bologna 25.11.1886-Roma 29.11.1974) ne fu formidabile testimone. Piccola borghesia romagnola della zona di Bertinoro, perse il padre a tre anni e venne allevato dallo zio assieme alla sorella. Piccolo, magro, completamente calvo già prima dei trenta, naso lungo come le mani candide e snodate. Pallido e notturno, lo sguardo emergeva da occhiali cerchiati d’oro. Fu amico di Benedetto Croce, Gerges Sorel e di Alfredo Oriani, un altro faentino. “Intelligentissimo, raffinatissimo, elegantissimo, ordinatissimo, scrupolosissimo” lo descrivevano in un tripudio di superlativi assoluti i colleghi. Scriveva gli articoli, anzi li vergava, in perfetta calligrafia con una penna d’oca. Emarginato dal fascismo, forsanche per paura dell’indigenza subì il fascino del ras di Bologna, Leandro Arpinati (cui va peraltro ascritta una delle poche cose buone del regime: l’istituzione nel ’29 del Campionato di calcio a girone unico). Grazie a lui arrivò a Roma, al Messaggero, estensore anonimo di editoriali. E del Fascio ottenne la tessera e fu laudatore, sino a firmare, con criminale incoscienza, il Manifesto della razza nel ’38. La sua fede nella sintesi era anche un brillante modo per voltar gabbana. Però con lampi di coraggio anche incosciente, come quando si presentò a Kappler, dominus tedesco della Roma in mani naziste, per chiedere la liberazione del fraterno amico Alberto Bergamini, già direttore del Giornale d’Italia e leader della Resistenza. Il quale, nel frattempo, era già riuscito a fuggire, ma non dimenticò. Così come non dimenticarono gli altri che aiutò ad evadere dal Celio dopo l’8 settembre 1943. Ebbe così un Encomio solenne dalla neonata Repubblica Italiana ed il viatico per la direzione prima del Messaggero e poi, appunto, del Corriere (e del Corriere d’Informazione) dal 1952 al ’61, intrattenendo forti rapporti con gli uomini di governo, di cui fu tra i principali consiglieri. Diceva di non leggere i giornali per cui scriveva, fece così anche per quelli che dirigeva. Non amava le notizie, ed arrivando in redazione nel tardissimo pomeriggio in primo luogo si assicurava che nulla avesse a turbare la sua quieta volontà di rapporto con il mondo. Così Gaetano Afeltra, che ne era il braccio destro ed il vero Direttore operativo, procurava di dargliele con cautela, minimizzando anche l’eventuale imminente caduta di un governo. I Crespi, proprietari del quotidiano di Via Solferino, gli avevano chiesto una linea il più equidistante possibile dai partiti. Lo fece. E fu così che quando qualcuno della famiglia, inconsapevole della scelta della cautela sino all’eccesso, gli suggerì maggiore incisività, Missiroli profferì la celebre battuta: “Sarebbe bello. Ma ci vorrebbe un giornale”. Assieme a tante altre, con l’ironia a supplire al coraggio. La migliore, e più vera, che “fare il giornalista è duro, ma sempre meglio che lavorare”.
Quando all’inizio degli anni ’60 venne defenestrato dal Corriere ritornò alla scrittura di saggi soprattutto storici, nei quali la sua capacità di analisi eccelleva. Gli risbocciò l’amore per la Valconca e dintorni, ma ad un passo dal concludere l’acquisto di un casale a Montefiore si fermò, alzò gli occhi e guardando il Castello disse: “Ecco quello che vorrei davvero”. Così non se ne fece nulla, né del Castello, né del casale. Dal ’62 al ’70 fu Presidente della Federazione Nazionale Stampa Italiana, il sindacato dei giornalisti. “L’uomo più intelligente d’Italia”, antifascista a fascismo vincente, fascista quando stava per crollare, gran giornalista che detestava i fatti, pavido coraggioso, ne era degno rappresentante, forse soprattutto per la sua biografia.

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