Benito Mussolini (1883-1945), prima di diventare il duce del fascismo, ossia il capo dell’estrema destra, è stato a lungo un uomo dell’estrema sinistra (sono cose che succedono ancora?). Più esattamente, Mussolini tra 1912 e 1914 fu, in qualità di capo della maggioritaria corrente rivoluzionaria del partito socialista italiano, il leader indiscusso del partito anche perché direttore del quotidiano “Avanti!”. Nel 1914, quando l’Italia restò inizialmente neutrale nella prima guerra mondiale, Mussolini passò dal neutralismo pacifista più intransigente all’interventismo rivoluzionario, trovando degli industriali che, dopo l’espulsione dal PSI, gli finanziarono il nuovo quotidiano “Il Popolo d’Italia”. Di esso Mussolini fu fondatore e direttore, e con i suoi articoli contribuì a spingere il governo verso la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria (maggio 1915).
Nel 1917 Mussolini utilizzò il suo grande talento giornalistico per scrivere editoriali furibondi ed ingiuriosi contro il pontefice Benedetto XV, che si era permesso di definire la guerra come una «inutile strage» (un giudizio che coincideva in sostanza con quello del socialdemocratico bolscevico russo Lenin).
Dopo la Rivoluzione bolscevica del 1917 e dopo la guerra (1914-1918) il futuro duce si scagliò contro i suoi vecchi compagni “traditori della patria” e si presentò come il rivendicatore dei diritti dei combattenti, fondando per questo, nel marzo 1919, il movimento dei «Fasci di combattimento». Per fare concorrenza ai socialisti egli formulò per il suo movimento un programma di avanzate riforme sociali, ottenendo in tal modo l’adesione di uomini come il futuro socialista Pietro Nenni e il maestro Arturo Toscanini.
Disastrosamente sconfitto alle elezioni dell’autunno 1919, Mussolini, deciso a far carriera, cambiò linea: dimenticò le riforme sociali del programma dei Fasci e pose il suo movimento al servizio della reazione di destra in nome del nazionalismo più acceso. Abbandonò allora al suo destino il poeta D’Annunzio e la sua impresa di Fiume, e trasformò il movimento fascista, protetto dalle autorità, in squadrismo violento e bastonatore contro le leghe sindacali e la sinistra socialista e comunista. Uomini come Nenni e Toscanini non lo seguirono più; i fascisti-squadristi uccisero, incendiarono le case del popolo e si impadronirono con la forza di molti comuni.
Grazie alla viltà del re Vittorio Emanuele III, che si rifiutò di fermare i fascisti alle porte di Roma nell’ottobre 1922, Mussolini ottenne la nomina a presidente del Consiglio; poi, poco alla volta, trasformò il suo governo in regime, in dittatura. Ciò accadde dopo l’assassinio del deputato socialista Matteotti, che aveva denunciato le violenze elettorali fasciste del 1924. E il 3 gennaio 1925 il duce del fascismo si assunse la responsabilità politica e morale (non quella penale, osservò lo storico Salvemini) dei delitti del suo partito, compreso il delitto Matteotti.
Vennero allora affossate tutte le libertà, e gli oppositori del regime finirono in carcere o al confino (che non fu affatto la villeggiatura di cui ha parlato l’attuale presidente del Consiglio), mentre molti si salvarono fuggendo all’estero. Altri morirono, in seguito alle bastonature dei fascisti. Dopo il parroco di Argenta don Minzoni, già assassinato nel 1923, caddero così Piero Gobetti e il dirigente liberale Giovanni Amendola. Furono perseguitati con speciale accanimento i comunisti, i cui capi vennero condannati ad oltre vent’anni di reclusione per il solo reato di propaganda. Vittime dell’odio mussoliniano furono anche gli antifascisti appartenenti al ceto medio, particolarmente detestati dal duce proprio perché gli impedivano di dimostrare che solo i socialcomunisti lo avversavano: il leader del movimento socialista-liberale non marxista di Giustizia e Libertà, Carlo Rosselli, venne assassinato in Francia, insieme al fratello Nello, da scherani francesi del genero del duce Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri e del suo capo di gabinetto Anfuso. «E’ assai difficile – ha scritto Gaetano Salvemini- per non dire impossibile, che Ciano e Anfuso abbiano agito di testa loro, e non per eseguire una volontà di Mussolini».
Con la vittoriosa guerra del 1935-1936 contro la debole Etiopia, Mussolini, che ordinò l’uso dei gas asfissianti contro gli abissini, conquistò l’impero d’Africa e permise al re di diventare imperatore d’Etiopia. Fu, quello, l’inizio dell’attuazione del programma di guerra al quale venne educata la gioventù italiana inquadrata nelle formazioni paramilitari del regime. Alleata della fascista Germania hitleriana, l’Italia entrò nel 1940 nella seconda guerra mondiale approfittando della disfatta della Francia ad opera delle truppe tedesche (la “pugnalata alla schiena”), e nel 1941 Mussolini dichiarò guerra alla Russia e agli Stati Uniti d’America. Tradito dai suoi camerati del Gran Consiglio e destituito dal re a guerra ormai persa nel luglio 1943, il duce fu liberato dai Tedeschi e si mise a capo della repubblica di Salò nella parte d’Italia non ancora conquistata dagli Anglo-americani, ponendosi al servizio dei nazisti. Tra i servigi resi alla Germania vi furono allora la sanguinosa repressione della Resistenza antitedesca dell’Italia settentrionale e la collaborazione alla cattura degli ebrei italiani da mandare a morire nei Lager. Questi erano infatti stati schedati fin dal 1938, ossia fin dall’approvazione delle leggi razziali contro di loro, fortemente volute da Mussolini.
Catturato dai partigiani nell’aprile 1945, il duce venne immediatamente fucilato per ordine del Comitato di Liberazione Nazionale. Chi detiene la carica di presidente del Consiglio dei ministri non è tenuto a conoscere la storia del suo paese. Sarebbe tuttavia bello essere governati da uomini dotati di un minimo di tale conoscenza. Ma per fortuna c’è Ciampi.
*Professore di Storia
del Risorgimento
all’Università di Ferrara
di Alessandro Roveri