– La prima pescheria di Cattolica (per quello che ricordo), si trovava alla fine del vicolo Bastioni. In questo piccolo tratto di stradina, vecchie casette allineate, si guardavano dirimpetto sorridendo nelle loro scrostazioni e crepe murali. La breve strada finiva in un greppo che scendeva in un campo incolto (l’attuale piazza Mercato). L’ultima casa sulla destra, prima del breve dirupo, era di ‘Garagusa’. Questa fu demolita e proprio in quella posizione, appoggiata al retrostante muro di recinzione della Balducci, il comune fece costruire il capannone aperto della pescheria. Ora tralascio questa noiosa descrizione topografica, per animare un meraviglioso angolo del piccolo paese della Cattolica di allora, con personaggi tipici e avvenimenti lontani nel tempo, ma tanto presenti ancora nel mio ricordo.
Mio babbo Vincenzo mi raccontava che sulla destra, prima della pescheria, mio nonno Michele Morosini aveva, a piano terreno, il magazzeno del pesce nel quale lavorava come commerciante all’ingrosso con i suoi tre figli: Primo, ‘Zafi’ e ‘Vincenzen’. Sopra questo magazzeno, al posto del tetto, era stato costruito un piccolo terrazzo. Mio nonno Michele vi saliva spesso e con un lungo cannocchiale scrutava l’orizzonte per vedere quali pescherecci stavano rientrando in porto. Ogni barca veniva riconosciuta dal colore delle vele e dai segni dipinti su queste. Però, anche senza cannocchiale, sia dalle strade rettilinee alla marina, sia dalla parte alta del paese, si poteva ammirare il mare. Che cosa meravigliosa era la Cattolica di allora! Cosa ci siamo perduti col progresso!
Ritornando a mio nonno, un giorno successe un fatto eccezionale. Non si è mai saputo come sia veramente andata la cosa. Forse per sbadataggine, distrazione o forse no, sta di fatto che il cannocchiale improvvisamente si girò di 90° a Ovest per fermarsi alla finestra della casa dirimpetto. Qui una donna, bene in mostra, sorrideva in abiti discinti. Mio nonno trasale di colpo, mette a fuoco le lenti del cannocchiale e… “E questa che roba cl’è?!… Cus cl’è sucès?”. In quel preciso momento qualcuno spinge indietro la donna e si affaccia alla finestra gridando: “Alora tzé te!… Vergognte brut vecc spurcacion!”. Risponde trasognato Michele: “Guerda che mi… mi… an mi so gnènca incort. Ma la tu moi an la tucaria gnènca sa un dèda!”. “Parché tla vris anche tuché eh…?!… Prova… e mi a t’amaz”.
Dal tono e dalla foga delle parole, quel marito sembrava volesse portare a termine la grave minaccia. I figli di Michele sentendo la discussione salgono sulla terrazza. “Bà, vnì via, nu pirdì al temp sa sta znia che an vèl la pena!”. La gente che si trovava al mercato, interessata, seguiva l’avvenimento comico girando il capo, a scatto cronometrico al dialogo, da mio nonno al marito geloso. Si parlò di questo fatto per circa un mese poi tutti, come avviene sempre, si dimenticarono tranne mio babbo Vincenzo che, quando io ero già signorina, ne parlava ancora divertendosi molto.
Non posso parlare del mercato del pesce senza inserire nell’argomento i marinai. Questi grandi lavoratori del mare, partivano per la pesca alle prime luci dell’alba (le tre-quattro) e ritornavano al pomeriggio alle tre circa. Dopo aver fatto la cernita per qualità, mettevano il pescato nelle ceste o panieri ‘cof ‘ o ‘panir’ e portavano con i carretti il pescato al mercato del pesce per la vendita all’ingrosso, fatta a voce dai ‘parznevle’ (proprietari delle barche e commercianti). Il trasporto del pesce era un lavoro massacrante eseguito da uomini e purtroppo, anche da donne. Attaccate al carretto da una fascia di cuoio a tracolla e aiutate dalla forza delle braccia, tiravano alle stanghe dal porto alla pescheria. A seconda della pescata i viaggi erano parecchi. In una parola questi esseri umani facevano il lavoro di un asino.
Solo chi è vissuto in quei tempi durissimi, anche come solo spettatore, può capire perché anche le donne ‘per campé’ si prestassero a questi lavori molto pesanti. Nessuno però protestava nè si lamentava per la fatica, perché di consuetudine era un lavoro come un altro. Fra le donne che tiravano il carretto conoscevo la ‘Iustina’ (Giustina). Non so dove prendesse tanta forza per il suo lavoro perché era avanti negli anni e all’apparenza piuttosto gracile. Aveva la testa spinta all’indietro, come se questa pesasse su un collo breve incassato nel torace. Questa lieve deformazione fisica era forse dovuta al lavoro che faceva del tirare il carretto. La ‘Iustina’, quando poteva, veniva volentieri nel negozio ‘dla Parnena’ (di stoffa) di mia mamma Giulia per parlare, e soprattutto perché in lei riponeva molta fiducia. Anche se tutto sembrerà inverosimile, debbo dire una cosa che vi riempirà di stupore: la ‘Iustina’ era amica di donna Rachele, la consorte di Benito Mussolini.
Come e quando fosse iniziata questa amicizia non l’ho mai saputo, però so di certo che la Rachele, quando veniva con la famiglia in vacanza a Riccione, mandava la sua guardia del corpo a chiamare la ‘Iustina’. Questa raccontava a mia mamma che la moglie di Mussolini la riceveva sempre in cucina dove era intenta a sfaccendare ai fornelli con pentole e tegami perché aveva la passione del cucinare. “Leia l’am zcur in dialet perché al taliano mi an al mastigh ‘na masa”. Dopo diverse chiacchiere la Rachele chiedeva: “Iustina fam ‘na bòta ad chèrt; dim di mi fiol e dal mi Benito”. La ‘Iustina’ non era una cartomante di professione. Allora si usava, da donne e ragazze, dare un significato alle figure delle carte da gioco romagnole, e a seconda della combinazione casuale di queste, ci si divertiva a predire l’avvenire. Quando però la ‘Iustina’, sempre per gioco, leggeva le carte, molte cose si avveravano. Per caso? Oppure c’era di mezzo un sesto senso?
Continua la ‘Iustina’ a parlare con mia mamma: “La Rachele da li chèrt la vo sempre savè se al su om u la tradis, mi a digh sempre nà, invece… (si guarda attorno e a voce bassissima) lu ad donie un n’ha… una rutatuia… un strasèn… una in particulèr”. Chiede mia mamma: “Iustina t’è ma vist al Duce?”. “‘Na volta ad sguinz, da dalongh. Am so spaventé…, um trimeva li gamb”. Dice Rachele: “An t’è d’avé paura, al mi Benito l’è un om bon!”. ‘Iustina’ ha finito di raccontare. Sta per andarsene e si rigira verso mia mamma: “Giulia, a m’aracmand nu dìl ma nisun quel che ho arcont… perché l’è periculos… l’è roba cla scota… un si sa mai come l’andrà a fnì… Beh, un si sa mai?!?” (sorride maliziosamente). “Giulia at salut”.
La donna esce nella strada e svanisce assorbita dall’incognita grande, infinita del mistero che avvolge stringendo in un freddo abbraccio tutti gli esseri umani: il futuro. ‘Iustina’ lo conosceva?!?
di Lorenza Morosini
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