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Venezia 1947, marinaio Gino Magi “Sociali”, fotoricordo alla Mari scuola Morosini.
(Archivio fotografico Centro Culturale Polivalente di Cattolica)
– Gino Magi detto “Gino d’Sociali”, classe 1926. Un pescatore tra i più stimati della nostra marineria, racconta.
Nel 1942 mi sono imbarcato sul motopeschereccio “Bruna”, uno dei soci e “paron” era Vincenzo Pezzolesi “Vicianz d’Baston”, l’altro socio era di Cattolica Antonio Prioli “Gnela d’Ghireli” e su quel motopeschereccio ho continuato ad andare in mare d’inverno e d’estate, fino all’armistizio della Seconda guerra mondiale l’otto settembre 1943.
Vincenzo Pezzolesi era un sant’uomo bravo e buono, mi voleva bene come un figlio, io ero già un ragazzo, avevo quindici anni ed ero alto 1,82. Come muré a bordo c’era Elio Campanelli “Gambren”, a tale proposito mi viene in mente un fatto avvenuto in mare in una notte del mese di gennaio.
Pescavamo in un banco di sabbia, non era come oggi che i pescherecci sono muniti di ecoscandaglio e altri strumenti tecnici. Per mantenere la linea di sabbia bisognava scandagliare di tempo in tempo. Lo scandaglio era formato da una palla di piombo di 15 kilogrammi di peso, avvolta in un pezzo di rete grossa e fitta che veniva calata fino in fondo al terreno. Tirando su la palla rimanevano attaccate nella rete tracce di sabbia, con le quali si stabiliva la rotta che era sempre molto attendibile nel giudizio dei marinai esperti. Sapevamo se ci si trovava a 24 passi, 25 passi (misurazione del fondale), a seconda delle tracce di fango o di sabbia fine e poi grossa, di mano in mano che si procedeva.
In un momento in cui io non ero di guardia, il turno capitò ad altri miei compagni, i quali si trovavano a dover scandagliare le acque mentre la barca era in movimento. Un marinaio andava a prua a lanciare la palla, in modo che procedendo la barca in avanti, quando veniva sciolto tutto il filo dello scandaglio (da parte del marinaio di poppa) questo si trovava a picco, per poter battere la stessa palla due-tre volte sul terreno, così da avere le tracce del fondo marino se di fango o di sabbia.
Il caso volle che nell’eseguire questa operazione non calcolarono perfettamente la posizione a picco dello scandaglio e la cima rimase avvolta nell’elica bloccando il motore: “l’era l’una pas mezanota” (era l’una dopo mezzanotte) e ci si stava preparando a salpare, quando il “paron” Antonio Prioli (dandomi del voi) dice:-Vô zuvnot av buté tl’acqua! -(voi giovanotto vi gettate in acqua!). Furono dei momenti drammatici, la rete era in acqua, l’elica non potevi usarla, a bordo avevamo una baionetta ben affilata che stava dentro ad un fodero. Il “paron” mi fece indossare la sua maglia e le sue mutande da mare per proteggermi dall’impatto immediato con l’acqua fredda. La lana con cui le donne dei marinai “a m’arcord quand li feva da gucc” (mi ricordo quando lavoravano coi ferri), realizzavano gli indumenti da mare, era un tipo di lana molto oleosa, la quale non si impregnava subito al contatto dell’acqua.
Prima di tuffarmi il “paron” mi dice: -La prima roba che t’fé, taia la pala e damla su. – (la prima cosa che fai, taglia la palla dello scandaglio e dammela su).
C’era necessità di stare ancora in mare altre ventiquattro ore, usando per conservare il pesce anche il ghiaccio di bordo e con questo aiuto si poteva continuare a pescare dalle trentasei alle quarantotto ore senza venire mai a terra.
Mi immergo sott’acqua e subito vedo la palla dello scandaglio vicino dove era avvolta la corda attorno all’elica. Era bonaccia, l’acqua era chiarissima, una scena impressionante perché si vedeva anche il pesce nuotare libero nel fondo e muovendosi creavano delle scie suggestive.
Sciolgo con attenzione la cima dello scandaglio impigliata nell’elica; intanto a bordo il “paron” aveva dato l’ordine di accendere il focone e preparare il caffé. Non ci fu neanche bisogno di salpare la rete, perché fortuna volle che noi pescavamo andando in su e la corrente andava verso ponente, i cavi erano rimasti sempre un po’ in tiro.
Dopo aver liberato completamente la corda dall’elica, a quel punto abbiamo iniziato pian piano ad andare avanti muovendo l’elica con il motore e aumentando gradualmente i giri, fino ad arrivare alla velocità normale e così abbiamo continuato a pescare. Il “paron” Antonio Prioli veniva in mare con il suo cestino “al panarén” dove vi era fra l’altro l’immancabile boccetta di cognach e le uova per lo zabaglione. Tornato a bordo lo stesso Antonio mi disse: -Te fat un bel lavor! To, ciapa un gocc ad cognach. – (hai fatto un bel lavoro! Prendi un goccio di cognach).
(Continua)