– Racconto di Novario Galli, classe 1921, storia di vita di un pescatore e di un marinaio della Marina militare.
[img align=left]http://www.lapiazza.rn.it/gennaio06/sommergibile.jpg[/img]
“Come cambio di vestiario non avevamo niente con noi, perché quando si partiva per la missione non si portavano cambi. Il bagno non c’era, la barba non si faceva per scongiurare il pericolo delle infezioni. Il servizio medico, si fa per dire, era curato a bordo dal comandante in seconda, coadiuvato dal capo elettricista. Naturalmente la loro esperienza era limitata a qualche pratica di pronto soccorso. Durante una missione scoppiò una epidemia di tonsillite con febbre alta tra il personale di guardia ai motori elettrici, che creò non poche preoccupazioni per la conduzione del servizio stesso. L’armadietto del pronto soccorso era fornito di un solo flacone di iodio e di glicerina per le pennellature in gola, che presto finì. C’era però una buona scorta di tintura di iodio pura, che il nostro pensò di diluire con la glicerina, la quale serviva agli elettricisti per le manutenzioni delle batterie. Venne preparato così un miscuglio con un dosaggio empirico che venne usato per le pennellature; sta di fatto che dopo due/tre giorni le febbri e le tonsilliti finirono con soddisfazione di tutti.
Rientrati a Cagliari restammo un mese a terra con un turno in campeggio, un turno in licenza e un turno sul sommergibile “Platino” per lavori di manutenzione e di riassetto. Il comandante Patrelli quando andava in licenza mi mandava sempre anche a me: “Galli, io vado a casa! Lei cosa fa?”. Ed io: “Comandante se Lei va a casa, vado in licenza anch’io!”. Ricordo un giorno che rientrato dalla licenza, il sommergibile aveva avuto
l’ordine: “Pronto a muoversi”, e partimmo così per un’altra missione che si concluse con il siluramento di un piroscafo.
L’azione si svolse così: rientrammo alla sera e quando fummo dentro la rada ci fu un’incursione aerea nemica, immediatamente si fece marcia indietro per uscire dalla rada. Durante queste operazioni di manovra fu avvistato un piroscafo nemico, immediatamente ci immergemmo a cento metri di profondità a tre miglia dalla rada (gli agguati nella stagione estiva avvenivano normalmente fino a sedici/diciotto ore su ventiquattro); in questo caso restammo trentasei ore sul fondo marino. Nella stagione estiva i giorni sono lunghi, alle quattro é già l’alba e la luce permane fino alle dieci di sera e alle notevoli profondità l’umidità interna diventava pioggia e il respiro sempre più affannoso.
Trascorsa l’immersione tornammo nuovamente in rada, ma il piroscafo avvistato non c’era più. Su ordine del ministero tornammo per ben due volte indietro; ricordo che c’era un silenzio spettrale, non si sentiva volare una mosca. Non passò molto tempo che il comandante ordina l’attacco: “Poppaaa!”. Quindi tutte le manovre per il lancio dovevano essere effettuate a poppa; il comandante ordina: “Attenti al lancio!” e successivamente “Al lancio” da parte del caposilurista, il primo siluro fa un tuffo come un delfino e immediatamente si constata che i siluri non andavano bene. A tale situazione ovviammo mettendoci a silurare di prora, i siluri venivano lanciati in diagonale per circa 45 gradi, perché il peso che aveva il siluro e la pressione dell’acqua che doveva entrare nella camera di lancio, obbligava il sommergibile a manovre di bilanciamento. Con il secondo siluro il comandante grida: “Piroscafo a picco!” e così uscimmo dalla rada. Ricordo che per l’accaduto ci fu un malinteso fra i soldati che attribuivano l’affondamento del piroscafo all’azione di un aereo “Bengala”, facendo riferimento all’irruzione aerea della sera prima (e anche questa é andata!).
Dopo la missione, l’equipaggio del “Platino”, che era in maggioranza veneto, scrisse sulla plancia esterna sotto la figura del drago rampante “Ocio che meno!”. Intanto cominciavano a circolare notizie sull’imminente sbarco in Sicilia, mentre noi partimmo per un’altra missione lungo le coste siciliane”. (Continua)