Guido Parmeggiani è nato a Rimini il 28 febbraio 1921. Dopo il diploma di ragioniere e il corso allievi ufficiali, dal ’40 al ’43 è soldato a Mentone. Nel frattempo si trasferisce a Riccione, dove si sposa e rileva l’albergo Colombo in viale Ceccarini. E’ qui che vive il passaggio del fronte, dopo essere tornato dallo sfollamento a San Clemente e Misano. Dal ’44 al ’55 è segretario della locale sezione della Croce Rossa Italiana di cui sarà presidente dal ’56 al 2003. Per 30 anni è anche presidente della clinica privata Villa Maria di Rimini. Assessore alle Finanze nella prima giunta riccionese del dopoguerra, è per molti anni agente di commercio per la Fiat. Contemporaneamente gestisce le proprietà familiari, tra cui l’albergo Colombo, fino a ritirarsi, pochi anni fa, a vita privata.
LA NOSTRA STORIA
– “Quando gli alleati sfondarono la prima Linea Gotica all’altezza di Pesaro, la notte precedente, ricordo che i bombardamenti e i bengala verso i paesi dell’entroterra illuminarono il cielo a giorno.
Così dalla casa colonica di San Clemente, dove ci eravamo rifugiati assieme a diverse altre famiglie riccionesi, decidemmo di spostarci verso Misano, presso dei nostri parenti che abitavano in via Ca’ Rastelli. Poi, neanche una settimana dopo, ricevemmo l’ordine di evacuazione dai tedeschi ed il giorno stesso, il 2 settembre 1944, io, mia moglie e i miei suoceri, i Fattori, decidemmo di tornare a Riccione, al nostro albergo, il Colombo, qui in viale Ceccarini. E con noi accogliemmo subito una ventina di persone, incluso un sottotenente dell’esercito, originario di Latina e fuggito dalla deportazione in Germania, che era capitato qui per caso durante il suo fortunoso ritorno a casa.
Alle nove di sera di quel 2 settembre i tedeschi fecero saltare la centrale telefonica, quasi accanto a noi (dov’è ora la BancaIntesa), poi di notte si ritirarono oltre il ponte del porto. E lì rimasero ad attendere gli alleati, facendo patire grandi sofferenze a tutti quei riccionesi che si trovarono bloccati sul lato tedesco del fronte.
Il mattino dopo, viale Ceccarini si era completamente svuotato. In giro c’erano solo gruppi sbandati di soldati russi (turkmeni, ndr) che, dopo aver disertato dalle fila tedesche, si erano prima riuniti attorno alla fornace Piva e poi sparpagliati per il centro (poi vennero tutti raccolti dai soldati alleati e portati via come prigionieri).
E’ verso le cinque del pomeriggio di quel giorno, il 3 settembre, che sono arrivati i primi canadesi. Saranno stati duecento, con tante di quelle macchine che sembravano non finire mai. E tranquilli. Si sono fermati, hanno iniziato a bivaccare su viale Ceccarini e a farsi il tè.
Così anche noi dall’albergo scendemmo in strada e loro furono gentilissimi, offrendoci zucchero, caffè, cioccolato, biscotti. Avevano davvero un po’ di tutto, anche la carne in scatola e quella congelata (me la ricordo ancora, era carne di pecora dell’Australia). Noi accettammo volentieri. Non c’era praticamente più nulla. In albergo avevamo sì un po’ di riserve di farina per la piada, ma, dopo averle divisa con gli ospiti che si erano rifugiati da noi, non ne era rimasta quasi più nulla.
In quel preciso momento, il nostro albergo era l’unico stabile di tutto viale Ceccarini a non essere stato danneggiato. Di lì a poco, ci si misero anche gli alleati, perché ricordo che fecero saltare con l’esplosivo, alla ricerca della cassaforte, la sede del Credito Romagnolo.
Poi, tre giorni dopo, arrivarono anche i carabinieri italiani, di quelli che stavano al seguito degli alleati, e con prepotenza ci ordinarono di andarcene tutti dall’albergo, tempo due ore, perché tutta la zona di lì al porto avrebbe dovuto essere subito evacuata. E, in tutta fretta, riparammo in una villa nella zona Abissinia, all’incrocio tra via Trento Trieste e via Battisti (l’attuale albergo Conterosso), assieme a un’altra trentina di persone. Con noi c’erano anche altri miei parenti e pure la cugina di mia moglie scesa dal Paese assieme al marito (Conti, il fabbro di corso Fratelli Cervi).
Quindi, attorno al 10-12 settembre, arrivarono a Riccione pure i soldati greci. Fu un brutto periodo, perché odiavano gli italiani e volevano vendicarsi. E, a dirla tutta, può darsi pure che ne avessero più di una ragione, perché tra noi commilitoni giravano brutte voci sul comportamento di qualche nostro soldato, tanto in Grecia come in Jugoslavia, quando eravamo stati noi ad occupare le loro case.
La nostra fortuna era che i greci, per disposizione alleata, non potevano scendere sotto la ferrovia, così noi potevamo dircene al riparo, ma Conti invece, il fabbro del Paese, saliva ogni giorno a controllare che la sua casa fosse ancora in piedi. Ed era lui a raccontarci degli scontri, dei saccheggi, di persone che venivano bastonate dentro casa e delle bastonate che gli stessi greci si prendevano dai soldati canadesi ogni volta che provavano a spingersi sotto la ferrovia.
La situazione per noi era dunque relativamente tranquilla. I tedeschi al di là del porto, però, non smettevano di sparare. Da quello che so, pur rimasti in pochissimi, mantennero la posizione per una decina di giorni e con un solo carro armato continuarono a tenere in scacco gli alleati. Una volta una granata colpì ed entrò nella casa che avevamo di fronte, di proprietà di un’altra cugina di mia moglie. Lei si era rifugiata nello scantinato e il proiettile per fortuna rimase inesploso al piano terra, altrimenti avrebbe fatto una strage. Poi andai io a prenderlo e portarlo via. Avrà avuto un diametro di almeno quindici centimetri.
In ogni caso, per chi stava più a nord, dietro le linee tedesche e sotto il fuoco alleato, era davvero molto peggio. Ricordo che una sola granata caduta su un rifugio (credo che dentro ci fosse la famiglia Pronti), poco prima del Marano, causò sette-otto morti.
In quei giorni feci anche brevemente parte del locale Comitato di Liberazione Nazionale e fu per questo motivo che, la sera del 16 settembre, gli inglesi mi mandarono a chiamare. Assieme al dottor Ghedini (che aveva la villa in via Dante) e a un altro dottore di Bologna, ci diedero in consegna la locale sede della Croce Rossa Italiana e mi assegnarono la carica di segretario (che poi ricoprii fino al 1955, quindi come presidente fino al 2003).
Mentre continuavano a tenerci in via Battisti, una sera, verso le nove, salirono tre-quattro soldati inglesi, mezzi ubriachi, urlandoci: “Stanotte grande fuoco! Grande fuoco!”. Poco dopo infatti, quasi a mezzonotte, gli alleati iniziarono a sparare. Sentivamo i colpi di cannone uno di seguito all’altro e i bengala illuminavano il cielo a giorno, come quando da San Clemente li vedemmo all’orizzonte verso Pesaro. Come allora, “sembrava la fine del mondo”. Era la notte tra il 20 e il 21 settembre, quella che precedette la liberazione di Rimini.