“Le Grandi Interviste della Piazza” è un’iniziativa della Piazza partita il 22 aprile scorso e prevede la pubblicazione di interviste a personaggi noti dell’economia e della società realizzate negli anni passati, giacenti nei cassetti della redazione, mai pubblicate sull’edizione cartacea, e che ora riprendono vita sull’edizione on line per ottenerne la massima diffusione possibile con la comodità di averle sempre disponibili sulla Piazza online oppure salvarle in Pdf. Lette (e rilette) a distanza di molti anni appaiono disarmanti, seppur con leggerezza, per la loro attualità. Insomma il tempo passa eppure le questioni di fondo si contano sulle dita di una mano. Qui di seguito un breve riepilogo delle tre “puntate” precedenti. Buona lettura e felice domenica. Lettere e commenti a: redazione@lapiazzarimini.it
Grande Intervista a Tito Boeri VAI ALL’INTERVISTA
Grande Intervista a Nicola Di Bari VAI ALL’INTERVISTA
Grande Intervista a Kary Mullis VAI ALL’INTERVISTA
INTERVISTA A MARCO PANARA
Quale futuro per le piccole e medie imprese?
“Tempi duri. Nel senso che l’economia mondiale va verso un periodo difficile. E anche la nostra pagherà un prezzo. Essendo flessibile, con una catena più corta soffriamo e forse soffriremo meno di altre economie”.
“Quello che devono fare sempre, non solo oggi o domani: lavorare molto sui prodotti, sulla tecnologia, sulle novità. Negli ultimi decenni hanno vinto i prodotti italiani che hanno cambiato i nostri comuni comportamenti. E sono proprio questi manufatti che hanno un vantaggio competitivo. Le imprese hanno bisogno di razionalizzazione, contenimento dei costi e l’esigenza di lavorare insieme. La crescita non può essere solo naturale, ma va fatta sotto forma di aggregazione delle piccole e medie imprese per avere la forza di investire, fare ricerca e internazionalizzarsi. Un fatto importante è che nuovi mercati si affacciano ogni giorno, ogni ora. Se i mercati classici non vanno abbandonati, chi aggancia i nuovi può farcela. Penso al Vietnam, al Marocco, all’Africa, all’Asia: aree geografiche possono dare molte soddisfazioni. Per i piccoli è difficile andare lontano, invece è un’esigenza fondamentale che si può fare attraverso azioni coordinate”.
Il made in Italy ha perso smalto e quote di mercato, perché?
“In realtà la perdita di smalto è un po’ ciclica. Abbiamo avuto un grande splendore nel design e nella moda. Un periodo gloriosissimo negli anni Sessanta grazie ad una combinazione di design e di imprenditori che hanno avuto il coraggio di star loro dietro. Di ascoltarli. Questo ciclo è un po’ cambiato. Oggi, si va più sul sicuro. Si dà spazio ad una progettualità che affina a discapito della creatività, dell’osare: e questo è un limite. Rappresenta una perdita di giovinezza e freschezza, anche se abbiamo ancora capacità artigianali forti. Uniche. In questo settore parecchie cose si producono ancora in Italia, dove c’è una capacità di fare alta e di livello sopraffino che non ha riscontro da nessun’altra parte nel mondo. Credo che negli ultimi due anni ci sia stata una riscossa, con un successo delle esportazioni molto vistoso. Abbiamo superato la Francia ed il Regno Unito di 50 miliardi di euro. Abbiamo avuto anche la capacità di allargare i nostri settori. Non più solo design, ma anche meccanica. Naturalmente la strada è sempre lunga; la competizione è sempre accesa. La qualità del passato non basta, ci vuole sempre uno sforzo ulteriore”.
Che cosa deve chiedere l’imprenditore allo Stato?
“Ognuno deve fare la sua parte. Lo Stato non deve fare l’imprenditore. Ma è l’imprenditore che deve attrarre e organizzare i talenti, accentuare la produttività, tentare nuovi mercati. Deve lavorare, ed è difficile, per risultati crescenti e perduranti, soprattutto se è un accentratore. Il fare impresa richiede molte competenze: finanziarie, di marketing, produttive, tecniche. Insomma, richiede un tasso di managerialità alta. L’imprenditore deve avere la capacità di parlare e organizzare i vari soggetti che hanno ruoli altrettanti importanti rispetto al suo. E’ chiamato a creare un ambiente favorevole allo sviluppo e deve avere la forza di sapersi relazionare con le competenze, con la scuola, con l’Università, i centri di ricerca. Lo Stato da parte sua deve pensare alle infrastrutture, alla giustizia, ai fattori di sicurezza, alla legalità commerciale, combattere la corruzione. Che sono poi altrettanti fattori di crescita. Uno Stato lento e complicato rende difficile penetrare i mercati. Le istituzioni dovrebbero avere una tempistica corta. Lo Stato ha un ruolo importantissimo: però non basta il pubblico da solo e non basta il privato da solo. Direi che tutto questo una parte dell’impresa lo fa. Ed una parte, seppur più piccola, dello Stato pure, anche se è rimasto più indietro sull’efficienza, sulla trasparenza. Gli imprenditori sono chiamati ad utilizzare le opportunità offerte dalla tecnologia per accrescere la capacità produttiva, ma rispetto alle nazioni più avanzate scontiamo delle arretratezze. Su questo, va detto, il pubblico ed il privato sono insieme. Un altro punto di fragilità verso le imprese sono i servizi: poco efficienti e molto costosi. Ci vorrebbe un veloce processo di liberalizzazione. Sarebbe una componente importante per la riqualificazione a vantaggio delle imprese e delle persone. Una cultura di servizio non proprio fortissima”.
Quali sono i difetti della nostra classe imprenditoriale?
“La lentezza nell’adeguarsi ad un sistema aperto, la voglia di innovare e di misurarsi. Specularmente l’assenza di queste caratteristiche, ha fatto loro preferire di appoggiarsi a sistemi protetti, collusi. Hanno difficoltà a gestire processi di allargamento, con tecnologia alta. Hanno intuizione, hanno inventiva, ma fanno fatica a fare sistema con sistemi più complessi, che richiedono organizzazione e capacità di regia. Hanno difficoltà ad interagire con il sistema della ricerca; sono chiusi nel loro mondo culturale e fanno fatica a dialogare. Hanno difficoltà concettuali. I risultati raggiunti li impigriscono, non osano sfidare e cercare di fare il salto dimensionale. E’ un imprenditore che accetta quanto ha fatto senza sentire il bisogno di andare oltre. In Italia un altro passaggio stretto sono i cambi generazionali. Colui che ha creato fa fatica a dare credito e fiducia a chi lo dovrebbe sostituire. E’ un tasso di provincialismo che li espone a scelte sbagliate. La difficoltà ad interloquire non facilità impedisce il salto dimensionale”.
Ci sono dei modelli imprenditoriali da portare come esempio?
“Tanti. Grazie a Dio gli esempi non mancano. E ci possiamo permettere di scegliere. Penso a Del Vecchio di Luxottica, Merloni dell’omonimo gruppo, Alessandri di Technogym, Bombassei della Brembo. Sono esempi importanti di aziende brillanti, capaci, vincenti che hanno avuto effetti anche sul resto del sistema. Hanno avuto la capacità di aprire gli occhi ad altri imprenditori”.
Paura di Cina e India?
“Il ciclo di sviluppo per loro sta correndo come per noi negli anni Sessanta; siamo diventati forti a discapito di altri competitori. Oggi, tocca a noi essere sotto assedio. Le due nazioni hanno dalla loro la demografia. Però sono anche delle potenze straordinarie. L’azienda Italia deve essere dinamica, con la capacità di gestire i processi che ci colpiscono. Può approfittare della sua leadership in alcuni settori, valorizzando la propria crescita. Per farlo deve puntare sull’innovazione: per continuare a stare davanti. Negli anni ’80, il Giappone sembrava capace di occupare qualsiasi mercato; gli Usa hanno risposto con la tecnologia. Non vedo Cina e India come nemici; come fatto concettuale nessun popolo lo è. Con le sue caratteristiche l’Italia si può giocare le sue carte, ma non nel comparto del basso valore aggiunto. Non è quella la strada. Bisogna puntare sulle nicchie dove siamo guida. Non possiamo fornire infrastrutture come città e industrie chiavi in mano, come fanno tedeschi e giapponesi, ma possiamo continuare ad allargare i nostri spazi che crescono perché l’economia cresce”.
In un contesto competitivo, come vede l’imprenditore italiano?
“Si è in un periodo grigio. Una parte dell’imprenditoria si è adattata al mercato domestico, che è quello medio-basso e utilizzava l’arma della svalutazione della lira come fattore competitivo. Queste aziende hanno avuto ritmi più lenti. Tuttavia negli anni, soprattutto con l’entrata in vigore dell’euro, una parte dell’impresa ha reagito positivamente e rapidamente. Una parte invece non ha fatto il cambio di passo perché i limiti dell’imprenditore-accentratore sono diventati i limiti dell’impresa. Quelle a rilento che hanno lasciato il campo nel 2007 sono state tantissime. Tante come non mai, ma rappresentavano la marginalità, con poco valore aggiunto rispetto a nazioni con i costi della manodopera più bassi. Avevano anche un basso tasso di internazionalizzazione”.
Redazione Online
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