In occasione della cerimonia inaugurale dell’anno accademico 2012-2013, la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Urbino ha conferito la laurea ad honorem ad Andrea Camilleri, vera e propria “istituzione” nel panorama culturale e letterario italiano. Nel suo intervento volutamente informale, dalla ironia sottile e pungente, Camilleri ha sottolineato come la progressiva penetrazione di anglicismi nel nostro lessico sia il primo, inevitabile passo verso la scomparsa della lingua di Dante. “Dirò subito che a me la nostra lingua non sembra star molto bene e che non si faccia niente per curarla. Sicché, col passare del tempo, la malattia – diciamo così, la sua condizione di salute – peggiora ogni giorno di più.” ha esordito l’autore davanti a una platea gremita di docenti, studenti e autorità. Immancabile, come sempre, la presenza di uno stormo di fotografi, giornalisti e qualche telecamera Rai. “Qualche mese addietro il presidente del Consiglio, il senatore Monti, intervenì per affermare che egli e il suo governo, attraverso le misure severe e restrittive imposte agli italiani, avevano salvato il nostro paese dalla colonizzazione. Vale a dire della cessione all’Europa di parte della nostra sovranità nazionale, intendendo ovviamente sovranità economico finanziaria e non territoriale. Ammesso che lo stesso Monti ha dovuto ammettere di aver agito con brutalità a seguito dell’eredità fallimentare che gli è stata lasciata e dalla crisi dell’euro mi auguro che realmente sia stato così. Ma il presidente del consiglio, certamente in totale buonafede, è il primo a collaborare con una imprescindibile, più sottile, pericolosa e devastante forma di colonizzazione:quella della lingua italiana da parte di lingue straniere”.
Camilleri ha poi aggiunto come i segnali di questa conquista linguistica fossero già stati avvertiti anni fa, qando il presidente dell’Accademia dei Lincei e il poeta Mario Luzi avevano proposto di introdurre un nuovo articolo nella Costituzione che assegnasse all’italiano il ruolo di lingua sovrana della Repubblica. Questo perché la presenza di anglicismi filtrati nel nostro vocabolario rischia di defenestrare i termini corrispondenti italiani, con la diretta conseguenza di abbassare la nostra lingua a idioma di secondo ordine in Europa. Appelli, questi, che pur pubblicati sul Corriere della Sera furono sarcasticamente criticati, anche dallo stesso Camilleri: “Molti, e io tra essi, intervennero ironizzando. Ci pareva una proposta inutile che sfondasse una porta aperta. É da tempo che vado facendo ammenda. Perché ho dovuto riconoscere che avevano perfettamente ragione. Infatti da qualche anno a questa parte la traduzione in italiano di tutti gli atti dell’Unione Europea è stata abolita. L’obbligatorietà della traduzione rimane per l’inglese, il francese e il tedesco. E questo senza che nessun politico italiano vigorosamente protestasse, pur essendo l’Italia uno dei paesi fondatori dell’Unione Europea. Se all’estero la nostra lingua viene quotidianamente vilipesa e indebolita, da noi viene maggiormente vilipesa da una sorta di servitù volontaria e assoggettamento inerte alla progressiva colonizzazione alla quale ci sottoponiamo: privilegiando l’uso di parole inglesi”.
Camilleri ha poi colto l’occasione di lanciare una delle sue frecciate umoristiche: “… e il presidente del consiglio parlando di spread, o di spending review, è il primo a dare il cattivo esempio. Per continuare una pessima abitudine dei nostri politici, basterà ricordare l’election day, la devolution, premier e via di questo passo fino a creare orrende parole del tipo: resettare”. L’autore è passato poi ad analizzare le cause scatenanti di questo fenomeno diffuso, parlando di un difetto che noi italiani ci portiamo dietro da sempre: “Il provincialismo italiano, antico nostro vizio, ha due forme: una è l’esaltazione della provincia come centro dell’universo; e valgan i primi due versi di una poesia di Malaparte: “val più un rutto del tuo pievano/che l’America e la sua boria” per dirne tutta la grettezza. L’altra forma è quella di credersi e di dimostrarsi non provinciali privilegiando aprioristicamente tutto ciò che non è italiano. Quante volte ho sentito la frase: «io non leggo romanzi italiani» o più frequentemente, «io non vado a vedere film italiani». Finita la digressione. Se poi si passa dalla politica al vivere quotidiano, l’invasione anglosassone appare tanto estesa da rendersi pericolosa. Provatevi a saltare da un canale televisivo all’altro (mi sono ben guardato dal dire «fare zapping»), vedrete che il novanta per cento dei titoli dei film o addirittura di alcune rubriche, sono in inglese. La stessa lingua parlano le riviste italiane di moda, di architettura, di tecniche varie. I discorsi della gente comune che capti per strada e persino al mercato sono spesso infarciti di parole straniere. In quasi tutta la strumentistica prodotta in Italia i sistemi di funzionamento sono identificati con parole inglesi. Ma il problema, noto con un certo piacere, comincia ad essere avvertito”.
Citando un articolo di Sergio Romano pubblicato sempre sul Corriere, Camilleri ha spiegato come gli anglofoni godano oggi di un immenso vantaggio (e tutti gli altri di un enorme svantaggio), aggiungendo: “Sarebbe utile ricordare che avendo la Gran Bretagna risparmiato diciotto miliardi di euro con l’abolizione dell’insegnamento delle lingue straniere in gran parte delle sue scuole, ne ha guadagnati duecento con l’insegnamento dell’inglese in Europa. E a proposito d’Europa, piccolissima parentesi: è questa l’Europa che noi Italiani, sottomessi al volere economico della Germania, dominati linguisticamente dagli inglesi, abbiamo così a lungo sognato? É così che muoiono le lingue. Quasi senza accorgersene. La lingua più forte opera una continua e tenace infiltrazione nella debole finché non perviene a una totale sostituzione”. Passando poi ad un’efficace metafora: “In sostanza, la lingua nazionale può essere raffigurata come un grande, frondoso albero la cui linfa vitale viene risucchiata attraverso le radici sotterranee che si estendono per tutto il paese. È soprattutto dal suo stesso terreno, dal suo stesso humus, che l’albero trae forza e vigore. Se però il dosaggio e l’equilibrio tra tutte le componenti che formano quel particolare terreno, quell’unico humus, vengono alterati attraverso l’immissione di altre componenti totalmente estranee, esse finiscono con l’essere così nocive che le radici, esattamente come avviene in natura, tendono a rinsecchire, a non trasmettere più linfa vitale. Da quel momento l’albero comincia a morire. Se comincia a morire la nostra lingua, è la nostra stessa identità nazionale che viene messa in pericolo”.
A conclusione del suo discorso, Camilleri ha sottolineato l’importanza dei dialetti nella costruzione di una lingua unitaria: “Nella biblioteca di un mio bisnonno, vissuto nel più profondo sud borbonico, c’erano La Divina commedia, l’Orlando furioso e i Promessi sposi tutti in edizione pre-unitaria. È stata quella lingua a farlo sentire italiano prima assai di poterlo diventare a tutti gli effetti. Una lingua formatasi attraverso un processo di assorbimento da parte di un dialetto, il toscano, vuoi dal primigenio volgare vuoi da altri dialetti. Dante non esitava a riconoscere il fondamentale apporto dei poeti «dialettali» della grande scuola siciliana, e ricordiamoci che è stato il siciliano Jacopo da Lentini l’inventore di quella perfetta macchina metrica che è il sonetto. E in Boccaccio, in certe novelle geograficamente ambientate fuor da Firenze, non si coglie qua e là un’eco di quel dialetto parlato dove la novella si colloca? Perché da noi è avvenuta, almeno fino a una certa data, una felice coesistenza tra lingua nazionale e dialetti. Il padovano del Ruzante, il milanese di Carlo Porta, il veneziano di Goldoni, il romano di Belli, il napoletano di Di Giacomo, il siciliano dell’abate Meli hanno prodotto opere d’altissimo valore letterario che hanno arricchito la nostra lingua. La guerra che subito dopo l’Unità d’Italia si cominciò a combattere più o meno scopertamente contro i dialetti, e che raggiunse il suo apice negli anni del fascismo, è stata un’insensata opera di autodistruzione di un immenso patrimonio. Si è scioccamente visto il dialetto come un nemico della lingua nazionale, mentre invece esso ne era il principale donatore di sangue. Oggi paghiamo lo scotto di quell’errore. Abbiamo abbattuto le barriere e quei varchi sono rimasti pericolosamente senza difesa. La mia riflessione termina qui. Coll’augurio di non dover lasciare ai miei nipoti non solo un paese dal difficile avvenire ma anche un paese la cui lingua ha davanti a sé un incerto destino”.
Alberto Biondi
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