di GIOVANNI CIORIA
Questa crisi economica è figlia della sbornia individualistica degli ultimi 25 anni. Dove è stato inculcato che il proprio destino non dipendesse che da se stesso. Quando invece il proprio io dipende dall’altro. Bisogna ripartire dalla cooperazione, virtù nel dna degli italiani come il fare artigianale. Il riminese Stefano Zamagni prima ancora che un economista di livello mondiale, è un grande uomo. Già preside della facoltà di Economia a Bologna, insegna Economia politica nello stesso ateneo. Tutti gli hanno chiesto di impegnarsi in politica, ma ha sempre preferito non accettare. Solca il mondo a testimoniare saperi e buon senso.
Professore, se lei fosse ministro dell’Economia, come andrebbe ad incominciare?
“Dopo aver accertato la situazione reale dei conti e la disponibilità di cassa, metterei in piedi un progetto per invertire la spirale mortifera dell’aumento della disoccupazione. Uno, detassare il lavoro. Due, far riaprire i rubinetti delle banche per non penalizzare ulteriormente il lavoro. Terzo, farei partire subito provvedimenti rivolti a rilanciare le imprese sociali, servizi alla persona ed ai beni comuni. I tre ambiti hanno una caratteristica: assorbono immediatamente manodopera. Cosa che non avviene in altri settori, dove si ha la crescita senza occupazione (jobless growth), perché la macchine si sostituiscono all’uomo. Detto dei primi tre provvedimenti da attuare, se è vero che la disoccupazione è la prima emergenza. Subito dopo, però bisogna puntare sul medio e lungo periodo. Metterei attorno ad un tavolo il mondo del lavoro e quello dell’Università. Uno dei problemi dell’Italia è che il comparto del sapere non è in sintonia col mondo del lavoro. Dovuto a pregiudizi culturali, retaggio di Gentile e Croce, che hanno sempre visto l’università e la scuola come alternative al lavoro. Se uno studia non lavora e viceversa. Non è un caso che i genitori al figlio svogliato dicono che se non studia, va a lavorare. Il lavoro viene visto come una punizione. Secondo, tu studi per non lavorare. Questa è anche una delle ragioni del tasso di disoccupazione giovanile così alto. I giovani escono dall’Università ma non sono in grado di entrare nelle unità produttive. Nella loro vita non hanno mai visto una fabbrica, un ufficio. Fosse il contrario, i giovani potrebbero apportare idee e slanci. L’addestramento al lavoro fa fatto negli anni universitari e non dopo. Così, con questa cultura, si vanno a dividere due mondi vitali. Per ripartire con un approccio da sviluppo da medio termine, introdurrei stage che non possono essere come quelli di oggi: una burla. Li farei valere anche per fini accademici”.
Partendo da quanto lei afferma, perché in Italia i cosiddetti mestieri artigianali vengono identificati come lavori manuali?
“Lo affermano quelli che non capiscono. La parola arte, dal greco, significa virtù, quindi artista. L’artigiano è un virtuoso. Assomma in sé sia il momento creativo, sia l’esecutivo. E’ nato in Italia nel 1200. Il suo modello più alto è Leonardo da Vinci; fu un grande artigiano. Purtroppo, in Italia, gli artigiani non sono mai stati aiutati. Nel dna dell’italiano medio c’è l’artigianato. Non siamo uomini da grandi fabbriche. Naturalmente, oggi giorno, colui che lavora e pensa, pensa e lavora va rivisto alla radice. E va innovato. Negli ultimi 30 anni è stato pensato alla grande impresa, accantonando l’artigianato”.
Breve periodo, medio periodo, ma come invertire questo pessimismo diffuso?
“Quando si sta male, non si può dire giusto o sbagliato, ma la condivisione diventa consolazione. Invece, ci sentiamo soli e sperduti. La solitudine, il pensiero individualista è stato costruito con la sbornia degli ultimi 25 anni. Sono passati valori tipo: ognuno deve arricchirsi, ognuno deve pensare alla propria carriera, ognuno è imprenditore di se stesso. Chi ha detto questo, è stato un grande incosciente. E’ stato un individualismo libertario. Dove ognuno pensava che il proprio destino dipendesse da se stesso. I poveri veri non sono mai depressi; hanno semplicemente fame. Noi, ora, ci sentiamo soli e depressi. Quanto diffuso negli ultimi 25 anni è stata una menzogna; chi ha diffuso menzogne deve vergognarsi”.
Come uscire?
“Dobbiamo ritrovare il senso della cooperazione. Cioè, io ce la posso fare insieme a te, come era nel dopo guerra. Come individui ci dobbiamo sentire parte di un corpo. Nel nostro dna come c’è la sapienza artigianale, così non c’è l’individualismo. Ce lo hanno soltanto contrabbandando.
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