di ALBERTO BIONDI
Le ultime ricerche condotte sullo stato di salute dei media italiani lo dicono chiaro e tondo: i quotidiani cartacei prendono colpi. Mazzate, ad essere obiettivi. Vendite in picchiata, inserzioni asfittiche, riduzione delle pagine e del personale nelle redazioni. In Italia la stampa sopravvive perché alimentata tramite il sondino naso-gastrico delle sovvenzioni statali e, se può consolarci, non è affatto sola in reparto. Il problema è tutt’altro che circoscritto al nostro paese. Il giornalismo cartaceo arranca dappertutto. All’estero non se la passano molto meglio di noi: Jordan Weissmann di Slate Magazine calcola che le odierne entrate pubblicitarie dei giornali statunitensi non sono mai state così basse dal 1950, assestandosi intorno ai 17 miliardi di dollari. Parliamo di briciole se si pensa che al giro di boa del nuovo millennio i miliardi ammontavano a 66. Una triste sorte per tutti? Non esattamente. Nel mondo i quotidiani che gestiscono un proprio sito Internet hanno arginato l’emorragia (solo un po’ meglio) contando sugli abbonamenti e la pubblicità online, ma resta il fatto che i ricavi della rete sembrano non crescere in consistenza e la cinghia è solo un buco meno stretta. Anche il buon vecchio New York Times, per intenderci l’Atlante dell’Olimpo giornalistico, sembra vacillare sotto il peso di questa turbolenta volta celeste.
C’è però, come sempre, chi in questo scenario da fall-out nucleare se la passa peggio degli altri e a rischiar grosso sono i quotidiani locali. Canoe irochesi contro un mare forza nove. Ho trascorso metà inverno nella redazione di un nostro giornale cittadino (non dirò quale, ma la sua “civetta” presidia l’esterno di ogni edicola assieme ai due maggiori concorrenti) per un tirocinio. In tre mesi ho toccato con mano gli aspetti più diversi della professione giornalistica e ho avuto l’onore di scrivere nella sezione Cultura e Spettacoli che, discreta, aspetta gli occhi dei lettori dietro al pompatissimo plico sportivo. Le pagine hanno un peso specifico. Senza voler peccare di piaggeria ringrazio ancora una volta i due mentori a cui sono stato affidato e ammetto che il bilancio finale della mia esperienza è stato decisamente positivo; ma se c’è una cosa che ho capito dal mio tirocinio è che in genere i quotidiani locali copiano, accentuano e portano all’estremo i vizi più radicati della nostra stampa nazionale.
Primo fra tutti l’omologazione. Provate a dare un’occhiata alla prima pagina dei nostri quotidiani locali e ditemi se tagliandoci il nome non potete giocarci tranquillamente a memory. In una variante meno allegra, chiaro. Il problema non è soltanto nella rilevanza data alle stesse notizie, generalmente il fattaccio di cronaca in cui Rimini e il Far West vengono uniti dalla solita, trita similitudine, o i battibecchi della Giunta o quel pino maledetto che proprio non doveva bloccare il traffico su quell’arteria. No, non è soltanto questo. É lo “stile” a non cambiare di una virgola. Se conducessimo un’analisi testuale su uno qualsiasi dei nostri quotidiani locali (tranquilli, faccio io, vi risparmio il peso) noteremmo gli stessi cliché linguistici, la stessa ricerca di dettagli irrilevanti da sensazionalizzare, raccontati con una voce di sottofondo che parla con lo stesso tono del giornalismo nazionale. Ha ragione Francesco Costa, che su ilpost.it ha pubblicato un articolo dal titolo “Giornali di un altro pianeta” (per chi è interessato eccolo QUI) in cui scrive di come il Guardian ha recentemente trattato un caso di cronaca nera paragonando l’approccio britannico all’italiano:
“Niente “la strage”, niente “l’orrore”, niente “la tragedia” e cose del genere. Niente aggettivi tipo “agghiacciante”, “inimmaginabile”, eccetera. L’articolo è scritto da un giornalista che vuole dare le notizie, e non da un giornalista che crede di essere Hemingway, e quindi non contiene metafore, dettagli strappalacrime, esercizi di stile, enfasi drammatica, tentativi di fare letteratura. […] Non ci sono pagine di “politica” in quanto tale, con interviste e retroscena su quello che succede in questo o quel partito. Non. Ci. Sono. Naturalmente i retroscena vengono pubblicati, ma occasionalmente e quando sono davvero fondati: quando c’è una notizia, insomma, e non due o tre al giorno. In questo numero non ce n’è nessuno. Gli articoli di politica-politica sono due in tutto il giornale, editoriali esclusi; in compenso ci sono molte cronache interne interessanti. Le pagine di politica estera sono 6, più una intera sull’impegno dell’esercito britannico nella guerra in Iraq e un’altra intera sugli inglesi musulmani che partono verso la Siria per combattere con i ribelli. Le pagine di economia sono 4. Il giornale ha in tutto 35 pagine, più 8 di sport e 12 di cultura e società. Sia le pagine di sport che quelle di cultura sono separate dal resto, così che uno possa leggerle separatamente: una cosa molto comoda per chi legge il quotidiano in metropolitana o sull’autobus”.
Se i nostri giornali nazionali sembrano giocare in qualche campionato inferiore rispetto alla Premier League dei corrispettivi britannici, i nostri quotidiani locali appartengono direttamente a un altro sport. Non criticherei l’approccio nostrano se questo trovasse un riscontro nel pubblico, ma il dato è che con questo stile la stampa italiana perde lettori. A livello nazionale come a livello locale. Rapidamente. Forse c’è da chiedersi se fino ad oggi non abbiamo scelto il modello sbagliato, un po’ come se l’idolo di un’aspirante attrice fosse Laura Chiatti e non Maryl Streep. E se i lettori italiani fossero più inglesi di quanto pensiamo?
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