di Silvio Di Giovanni
– Nel quint’ultimo giorno di giugno si compie esattamente il mezzo secolo dalla morte di don Lorenzo Milani, il prete di Barbiana allora oltraggiato e perseguitato e poi dimenticato dalla Chiesa di Roma.
Aveva soltanto 44 anni ed era nato a Firenze da una agiata famiglia della borghesia intellettuale di un buon livello culturale e laica, di cui il padre era un professore universitario, il nonno un archeologo ed il bisnonno un filologo e poliglotta. Era una famiglia non particolarmente incline a scelte religiose, sicuramente agnostica.
Dopo i Patti Lateranensi del 1929, tra il fascismo di Mussolini e il cardinale Gasparri per la Chiesa di Roma e dopo la inclinazione che stava imboccando il fascismo in Italia dal 1933 in vista di quelle che saranno poi le Leggi Razziali, la sua famiglia farà battezzare i figli ed i genitori si sposeranno in Chiesa, giacché la madre di Lorenzo era di origine ebraica (quindi questa uscita famigliare di tipo religioso doveva servire a dare una patente di arianesimo ad una casata fiorentina della ricca borghesia che viveva bene con il fascismo, così come tante altre, quando non lo avevano addirittura finanziato e sostenuto, così come in una intervista riporta Oreste Del Buono).
Don Lorenzo, con la sensibilità di cui era permeato e col dolore e vergogna che doveva provare, analizzerà poi la complicità di classe con gli orrori del fascismo.
Lorenzo crescerà malaticcio e sarà circondato di cure come un “signorino” privilegiato. Avrà la fortuna di avere amicizie di persone che emergeranno poi culturalmente (vedasi Luca Pavolini compagno di giochi che diventerà giornalista dell’Unità, Bice Valori, Sergio Tofano, verranno poi Oreste Del Buono, Saverio Tutino).
A scuola non sarà uno studente modello e si accosterà da solo alla fede ed alla Chiesa lasciando la famiglia nello stupore.
Non andrà all’Università, come era invece normale prassi di tutta la sua famiglia. Proverà anche l’esperienza della pittura ed un giorno nel ‘43 al tempo della guerra e della fame, in Firenze presso Piazza Pitti, mentre dipingeva, si verificò un episodio che lo segnerà profondamente. Stava dipingendo e si mise a mangiare un panino. Una popolana lo apostrofò: – “Non si viene a mangiare il pane bianco nelle strade dei poveri”. Questo episodio che lui stesso racconterà in seguito alla professoressa Adele Corradi, insegnante di Barbiana, lo commenterà dicendo di essersi accorto di essere odiato e che la cosa gli importava molto. Le dirà anche il senso di colpa che provava da bambino quando l’autista di famiglia lo accompagnava a scuola con l’automobile e lui voleva scendere prima per la vergogna che provava alla vista dei compagni.
Dal 1942 al 1943 vari accadimenti lo orientarono verso la Chiesa. Vorrà essere cresimato ed entrerà nel seminario , il tutto con la disapprovazione della sua famiglia. Nell’estate del 1947 venne ordinato sacerdote.
Quando nell’ottobre del ‘47 arriva a San Donato di Calenzano quale giovane cappellano per dare una mano al vecchio parroco Daniele Pugi, è una giornata di pioggia che intristisce il grosso borgo operaio ove il giovane prete comincerà a farsi le ossa.
E’ qui che inizia il nucleo della sua “Esperienze Pastorali”. E’ qui che Lorenzo comincia ad elaborare il “suo” catechismo storico. Qui fondò la sua “scuola popolare”.
Il 2 giugno 1946, nell’occasione del referendum istituzionale, Lorenzo si era schierato per la Repubblica contravvenendo alle reccomandazioni contrarie del cardinale Elia Dalla Costa ed il 18 aprile 1948 lo vivrà con un tremendo contrasto interiore attenendosi però alla imposizione di far votare gli elettori, fedeli della parrocchia, per la Democrazia Cristiana.
Ma chi è veramente questo prete che la Chiesa anche oggi pare non abbia gran volontà di ricordare?
Ben presto don Milani si rende conto di tutto il carattere esteriore e formale della vita parrocchiale e della sua vacuità, tipo le processioni con il loro carattere folcloristico; il tutto gli risulterà un non vissuto della pratica liturgica e della formazione catechistica. Abbandonerà anche le iniziative tipo partite di calcio, tornei, ecc… che sono mezzi per attirare i giovani ma che, secondo Don Lorenzo, non li conducono da nessuna parte, che non servono per farli maturare ma anzi contribuiscono ad addormentarne le coscienze ed a intorpidirne le menti.
Lorenzo intravede la strada migliore nella esperienza della scuola popolare. Una scuola serale per tutti i giovani operai. Provvederà ad invitare, ogni venerdì sera, delle personalità della politica, della cultura, del sindacato per parlare con i suoi ragazzi.
Inventerà un nuovo e diverso modo di confronto e di rapporto tra i cattolici e i comunisti. E’ chiaro quindi che Lorenzo non riceverà solo grande attaccamento e stima da parte dei suoi ragazzi ed interesse da parte delle persone più illuminate, ma anche numerose antipatie, per non dire peggio, a causa del suo comportamento anticonformista, schietto e franco.
Quando nel 1954 morirà il vecchio prevosto di San Donato, don Daniele Pugi, Lorenzo non sarà nominato parroco al suo posto, ma sarà mandato via, sarà trasferito a Barbiana, in “un penitenziario ecclesiastico” come dirà lui nella sua corrispondenza.
In realtà il Clero ivi relegherà una delle menti più lucide e taglienti della Chiesa Italiana.
Pur mandato in una zona sperduta del Mugello, senza strada, senza acqua, senza luce, con poche case sparse, tuttavia Lorenzo capirà il senso di una vita in quel luogo.
Riprenderà anche lì l’esperienza della scuola popolare. Lui è profondamente convinto che la più grande ingiustizia sia rappresentata dallo stato forzato di condizione di ignoranza in cui è tenuta la popolazione dei più poveri.
E’ fermamente convinto che la strada dell’istruzione sia la prima da percorrere e che i giovani operai vadano tolti dallo stato di semianalfabetismo culturale.
Il Clero però non è d’accordo e quando nel 1958 uscirà il suo libro “Esperienze Pastorali” il Santo Uffizio, il 15 dicembre dello stesso anno ordinerà il ritiro dell’opera dal commercio e proibirà anche la ristampa e la traduzione. Oltre alle pie persone di benpensanti che perseguitarono don Milani, ci penseranno a tirare la volata al Sant’Uffizio sia la Settimana del Clero che la Civiltà Cattolica con due orribili stroncature del libro.
Oggi è bene rileggerlo, questo libro. E’ un copioso volume di quasi cinquecento pagine che alla sua uscita ebbe come estimatori personaggi come Luigi Einaudi, Don Primo Mazzolari, monsignor Giulio Facibeni. Ma è chiaro che suscitò le polemiche tra i benpensanti.
Il libro in realtà è una lucida analisi sociologica dell’ingiustizia e dell’oppressione sociale, è il frutto delle riflessioni e delle scelte pastorali di questo parroco venuto a contatto di quella realtà a San Donato. E’ chiaro che è un libro scomodo, dal quale emergono da sole le crisi dei “dogmi”. Appaiono poi le differenze più grandi tra ricchi e poveri proprio in relazione al discrimine culturale. I poveri, dice Lorenzo, restano emarginati perché non possiedono gli strumenti di cultura che possono dar modo di prendere in mano il loro destino e cambiarlo. Ai poveri manca la proprietà della coscienza e della lingua.
Questa disamina non va bene al clero di allora e così come Mussolini ha già fatto per Gramsci, così la chiesa di Roma vorrà bloccare questo cervello scomodo, un cervello esigente e antidogmatico, un cervello provocatore e sovvertitore dell’ordine costituito, un cervello tanto più pericoloso in quanto ortodosso ed ubbidiente alla gerarchia della Chiesa, della sua amatissima Chiesa. Quindi si penserà di relegarlo tra i monti del Mugello, a Barbiana, appunto.
Don Lorenzo non si perde d’animo, qui fonda la nuova scuola postelementare con un lavoro di gruppo di ispirazione antiborghese per i suoi ragazzi, i suoi “montanini”.
La scuola sarà il luogo ove i poveri potranno imparare la lingua che li potrà rendere uguali agli altri.
Sarà questa un’esperienza forse irripetibile e più unica che rara nel suo genere che però saprà attirare l’attenzione di personalità del mondo della cultura e della politica e saranno numerose le visite a Barbiana, dal teorico della non violenza Aldo Capitini a Pietro Ingrao.
Sarà quella di Barbiana una scuola diversa, rivoluzionaria, una scuola di lingua e di pensiero, ma una scuola laica perché già cristiana nel suo midollo. Diventerà una meta per tanti e tutti quelli che saliranno a Barbiana saranno “usati” da Don Lorenzo come “strumenti utili” alla crescita della sua scuola e dei suoi ragazzi.
La scelta dei poveri, dei non istruiti sarà il terreno di battaglia di don Milani che dirà “i poveri hanno subito inganni e tradimenti anche dai cattolici” e la cosa è bene espressa nella sua lettera ad un giovane comunista. Si lamenterà Lorenzo che i comunisti e i democristiani del dopoguerra hanno mancato l’occasione storica per realizzare in Italia una autentica società civile e di valori cristiani, così come si stava creando nella esperienza della Resistenza e della Liberazione (la lettera è meglio conosciuta come “Lettera a Pipetta”).
Prima di “Esperienze Pastorali” dal 1949 al 1956 Lorenzo aveva pubblicato una serie di scritti quali lettere aperte, pubblicazioni su periodici, poi il 28 ottobre 1958 succederà un fatto eccezionale con l’avvento di Papa Giovanni XXIII che sarà una ventata nuova nella Chiesa e nei suoi rapporti con gli altri. Verrà convocato il Concilio Vaticano II che sarà una rivoluzione per la Chiesa.
Don Lorenzo nell’agosto del ‘59 tenterà un passo molto ardito, scriverà a Nicola Pistilli che è il direttore di una rivista Cattolica, della sinistra Cattolica. Quella lettera è un documento di una insospettata lungimiranza che precorre i tempi ed in relazione ai rapporti interni della Chiesa Cattolica anticipa ciò che sarà la nuova impostazione, ma il direttore Pistilli non avrà il coraggio di pubblicarlo.
Io mi domando: non erano ancora maturi i tempi? Forse i tempi avevano scadenze diverse rispetto alla fulgida intelligenza e preveggenza di questo giovane prete?
Don Lorenzo Milani aveva scritto anche un’opera che non ha mai pubblicato: “Università e pecore”; l’ha tenuta in archivio ma non l’ha distrutta, anche quando sapeva di dover morire. Quindi è da pensare che ambisse alla pubblicazione postuma?
E’ questa un’opera scritta ad un amico magistrato, con la quale opera il sacerdote descrive in maniera cruda e reale la vita dei pecorai Adolfo e Adriano e del “Signorino”. Descrive come Adolfo abbia passato tutta la fanciullezza e la giovinezza a badare le pecore e da adulto a lavorare la terra, cioè il podere del “Signorino” e con le pecore manda il figlio Adriano, il quale, come suo padre, cresce analfabeta giacché non può andare a scuola, deve badare le pecore. Le pecore che danno la lana, il latte e gli agnellini. Poi si vende la lana, il latte e gli agnellini e la metà del ricavato basta appena per campare alla famiglia di Adolfo e Adriano, mentre la metà del “Signorino”, sommata assieme a tante altre metà di tanti altri poderi, basterà al Signorino per andare a scuola fino a 30 anni e più. In questa sua opera si avverte l’autobiografia, il suo puntuale esame di confronto tra due distinti mondi dell’infanzia dei ricchi e quella dei poveri, separata da confini invalicabili.
Nel 1965 prenderà una netta posizione sul problema della obiezione di coscienza rispetto al servizio militare.
L’occasione gli viene dalla lettura, con i suoi ragazzi, di un comunicato stampa dei Cappellani Militari Toscani in congedo. Questo comunicato è in realtà il parto di menti cattive ed intolleranti, incapaci comunque di capire gli altri, il che è in netto contrasto con il dettato cristiano, per Lorenzo.
Leggiamo assieme il passo saliente del comunicato: “Ordine del giorno dei Cappellani Militari in congedo della Toscana nell’anniversario della conciliazione tra la Chiesa e lo Stato Italiano… il seguente ordine del giorno: “ I Cappellani Militari in congedo…. considerano un insulto alla patria ed ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”.
Ad una persona sensibile come Lorenzo non andò giù una simile cattiveria gratuita ed offensiva e provvide a rispondere agli insulti in maniera netta.
Osserviamo attentamente alcuni passi significativi della lunga epistola che va sotto il titolo di “risposta di Don Milani ai Cappellani Militari”: “…avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo. E nessuno che io sappia vi aveva chiamati in causa. …Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se Voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora io vi dirò che, nel Vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati ed oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se Voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliori di Voi: le armi che Voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero ed il voto. Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le Vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche Voi le idee degli altri. Soprattutto se sono uomini che per le loro idee pagano di persona.”
In verità io faccio torto ad evidenziare solo alcuni passi di questa nobilissima lettera. Andrebbe riportata tutta. Andrebbe pubblicata tutta, ma è di molte pagine. Sarebbe meritevole che “La Piazza” la pubblicasse per intero in una prossima occasione.
Ritengo che, almeno ad alcuni passi espressivi, vada dato risalto. Nella sua conclusione abbiamo: “Ma in cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra “giusta” (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie,ma difesa della nostra: la guerra partigiana. Da un lato c’erano dei civili, dall’altro dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altro soldati che avevano obiettato. Quali dei due contendenti erano, secondo Voi, i “ribelli” quali i “regolari”?
E’ una nozione che urge chiarire quando si parla di Patria. Nel Congo per esempio quali sono i “ribelli”?
Poi per grazia di Dio la nostra Patria perse l’ingiusta guerra che aveva scatenato. Le Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati.
Certo dobbiamo rispettarli. Erano infelici contadini o operai trasformati in aggressori dall’obbedienza militare. Quell’obbedienza militare che Voi cappellani esaltate senza nemmeno un “distinguo” che vi riallacci alla parola di San Pietro: “Si deve obbedire agli uomini o a Dio?”. Ed intanto ingiuriate alcuni pochi coraggiosi che sono finiti in carcere per fare come ha fatto San Pietro.
In molti paesi civili (in questo più civili del nostro) la legge li onora permettendo loro di servire la Patria in altra maniera. Chiedono di sacrificarsi per la Patria più degli altri, non meno. Non è colpa loro se in Italia non hanno altra scelta che di servirla oziando in prigione.”
Ed ancora: “In quanto agli obiettori, la Chiesa non si è ancora pronunziata né contro di loro, né contro di Voi. La sentenza umana che li ha condannati dice solo che hanno disobbedito alla legge degli uomini, non che sono vili. Chi vi autorizza ad rincarare la dose?”
Poi ancora: “Aspettate ad insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene….”.
Ed infine sentiamo come sono profetiche queste conclusioni e come siano ancora attuali: “Auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione ed ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si sono sacrificati per i sacri ideali di Giustizia, Libertà, Verità. Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene ed il male fra la verità e l’errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima. Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d’odio, si sono sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano.”
Don Lorenzo invierà la lettera anche a tutti i parroci della diocesi e della Provincia e la farà poi pubblicare sul settimanale “Rinascita” con il titolo “Non è una viltà l’obiezione di coscienza”.
A questo punto i benpensanti Combattenti, cappellani “difensori dei sacri ideali della Patria” faranno una circostanziata denuncia al Procuratore della Repubblica di Firenze, contro il reo don Lorenzo Milani e contro il direttore del settimanale, anche forti e confortati dalla allora recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione che aveva respinto il ricorso di padre Ernesto Balducci contro la condanna comminatagli dalla Corte di Appello di Firenze “per l’esaltazione dei cosiddetti obiettori di coscienza”.
Lorenzo sarà incriminato per “Apologia di reato”.
Al processo avanti al Tribunale di Roma (4° Sezione) sarà presente solo il vicedirettore del settimanale incriminato per avere pubblicato la lettera. Lorenzo è già ammalato e manderà una lettera ai giudici datata “Barbiana 18/10/1965”. E’ molto lunga la lettera, però meriterebbe di essere conosciuta per il suo contenuto: per la puntuale disamina dei fatti, la espressione della sua maturazione, la intelligente ricerca di documentazione storica e la dimostrazione di una conoscenza che non era affatto comune.
Anche per questo oserei sperare, se fosse possibile in futuro, la sua integrale pubblicazione da parte del nostro mensile. Io mi accontenterò di riportare solo due brani e cioè quello di apertura e quello di chiusura: “Signori Giudici, vi metto qui per iscritto quello che avrei detto volentieri in aula. Non sarà infatti facile ch’io possa venire a Roma perché sono da tempo malato. Allego un certificato medico e vi prego di procedere in mia assenza. La malattia è l’unico motivo per cui non vengo. Ci tengo a precisarlo perché dai tempi di Porta Pia i preti italiani sono sospettati di aver poco rispetto per lo Stato. E questa è proprio l’accusa che mi si fa in questo processo. Ma essa non è fondata per moltissimi miei confratelli e in nessun modo per me. Vi spiegherò anzi quanto mi stia a cuore imprimere nei miei ragazzi il senso della legge e il rispetto per i Tribunali degli uomini.” ….
Ed alla fine della lettera: ”A più riprese gli scienziati ci hanno avvertiti che è in gioco la sopravvivenza della specie umana (per esempio Linus Pauling premio Nobel per la chimica e per la pace).
E noi stiamo qui a questionare se al soldato sia lecito o no distruggere la specie umana?
Spero di tutto cuore che mi assolverete, non mi diverte l’idea di andare a fare l’eroe in prigione, ma non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato fino a ora cioè che se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura. Spero che in tutto il mondo i miei colleghi preti e maestri d’ogni religione ed ogni scuola insegneranno come me. Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e così non riusciremo a salvare l’umanità.
Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l’umanità ci salveremo almeno l’anima.”
La sentenza di Primo Grado che verrà emessa dal Tribunale è una meditata ed intelligente analisi dello stato delle cose (nel 1966) ed in una disamina di numerosissime pagine analizza il problema dell’obiezione di coscienza e decide che il parroco incriminato con la sua lettera aperta e il giornale che l’ha pubblicata non hanno offeso le istituzioni e nemmeno hanno incitato alla ribellione, ma hanno espresso le proprie opinioni e per questo non sono punibili perché il fatto non costituisce reato.
Purtroppo non finiranno le pene giudiziarie per Lorenzo e per il giornalista.
Ci sarà il ricorso in appello, proposto dalle pie persone e dai Cappellani Militari, con la condanna a cinque mesi e dieci giorni per il giornalista Pavolini, ma don Lorenzo sarà già morto e sepolto a Barbiana nel Mugello, per sua volontà, nel piccolo cimitero di montagna con gli scarponi e con i paramenti, dove aveva voluto per sé un posto tra i suoi “montanini”.
Questo povero sfortunato giovane ha dovuto cedere contro la grave malattia.
Un linfogranuloma maligno è il suo tumore ai polmoni contro il quale lotterà fino agli ultimi giorni.
Farà fatica anche a parlare alla fine dei suoi giorni e comunicherà con dei bigliettini e due giorni prima del suo triste epilogo sorretto dalla sua forza interiore riuscirà anche a scherzare borbottando con la sua consueta vena di ironia: “un grande miracolo sta per avvenire in questa stanza, un cammello che passa per la cruna di un ago”.
Con tutta la grande soddisfazione dei suoi persecutori la sentenza d’appello di condanna che lo riguarderà dirà che “per il priore di Barbiana, il reato è estinto per morte del reo”.
Complimenti alla memoria di quelle gentili e benpensanti persone, complimenti alla memoria di quegli eminentissimi cappellani militari in congedo, immagino quanto abbiano potuto essere ben fieri del loro agire!!!
Nonostante la grave malattia Lorenzo preparerà la sua ultima opera “Lettera ad una professoressa” che sarà tradotta poi in varie lingue.
Va detto che questa sua ultima fatica, che avrà per autore la scuola di Barbiana con i suoi ragazzi, è una critica minuziosa alla scuola elitaria italiana di quegli anni, una scuola… “che boccia i figli dei poveri e promuove i figli dei ricchi”, “che fa parti uguali tra diseguali”; una scuola… “che è un ospedale che cura i sani e respinge i malati così da diventare uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile” e rivolgendosi agli insegnanti: “Voi dicendo di aver bocciato i cretini e gli svogliati sostenete che Dio faccia nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri; non posso pensare che Dio faccia questi dispetti ai poveri, è più facile che i dispettosi siate Voi”.
Questa opera, che assorbirà gli ultimi mesi di vita di Lorenzo che sta lottando contro il male, è una minuziosa analisi delle disfunzioni della scuola italiana di quel tempo ed influenzerà non poco il “68” italiano e ciò, ad onor del vero, al di là delle intenzioni dell’autore stesso. E’ un’opera che ha il merito di sollevare in Italia in modo clamoroso e polemico il problema della organizzazione scolastica selettiva ed antipopolare.
In quel periodo Lorenzo accoglierà a far scuola a Barbiana il pastore evangelico Roberto Nisbet al quale regalerà una copia di “Esperienze Pastorali” con le dediche. Questo prete evangelico resterà molto colpito da questo suo incontro e dalla lettura dell’opera milaniana e scriverà a Lorenzo una lettera nel maggio del ‘67 (il mese prima della sua morte).
Eminenti personaggi si sono poi misurati attorno alle opere di Lorenzo ed attorno al suo insegnamento: Pierpaolo Pasolini nel 1973 lo ha sintetizzato come “una figura tragica e consolatrice del nostro universo disperato”. Lo storico Michele Ranchetti ha analizzato la complessa figura del giovane Milani e della sua cara amica Carla Sborgi che da giovani, prima del suo ingresso in seminario, era stata la sua “quasi fidanzatina”. Lo studioso francese Michel Foucault, uno dei protagonisti della cultura europea del ‘900, ci insegna come analizzare la complessità delle figure umane di questa levatura. Maurizio Di Giacomo con il suo volume “Don Milani tra solitudine e Vangelo” apre un nuovo orizzonte nell’analisi su don Lorenzo, getta una luce in “chiave esistenziale” su questo prete che sarà coerente ed ortodosso fino all’ultimo e,nonostante la provenienza degli attacchi alla sua persona, lui sarà nella Chiesa e mai al di fuori di essa.
Io mi chiedo se sia ora, da parte di chi può avere questo compito, di chiedere scusa alla Storia e alla memoria di questo parroco. La sua figura dovrebbe rappresentare, per gli onesti credenti nei valori della solidarietà e della cultura, un faro da cui attingere luce di speranza.
Cattolica, 11 giugno 2017