di Silvio Di Giovanni
Perché scoppiò la prima guerra mondiale del 1914-1918? Perché l’Italia entrò nel conflitto nel maggio del 1915?
La scintilla partì dai Balcani ed anche vent’anni fa circa, quelle terre furono teatro di continue tensioni che diedero luogo ad imprevedibili sviluppi.
Tuttavia le ragioni sono molteplici e certamente pregne di brama di potere e di grandezza.
La rapida ed impressionante produzione industriale tedesca con la parallela ascesa delle esportazioni anche sul mercato inglese e con l’annuncio dell’Imperatore Guglielmo II di voler fare della Germania una grande potenza anche marinara, preoccupò fortemente il paese anglosassone, che aveva sempre avuto il primato sui mari e nei commerci con una supremazia indiscussa.
L’occasione fu l’attentato del 28 giugno 1914 all’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, ma fin da prima i segni di un profondo spostamento dell’equilibrio sia politico che economico tra le maggiori potenze d’Europa e del Mondo che innestarono la scusa per l’inizio della guerra, di quella terribile mattanza, cui l’Italia non ebbe né la capacità né la volontà di sottrarsi, furono sistematicamente preparati ed attuati dai due gruppi di nazioni belligeranti per interessi politici, economici, di supremazia e di potere che diedero luogo alla grande carneficina.
La guerra, scriveva Voltaire, assieme alla carestia ed alla peste rappresenta i tre ingredienti più famosi di questo mondo.
La guerra è voluta dagli uomini e per questo ci pensano alcune centinaia di persone tra Ministri, Monarchi, Principi, Generali ad organizzare ed incitare le folle con la benedizione dei rispettivi religiosi che officiano in nome di Dio da ognuna delle parti a cui appartengono.
La carestia e la peste, che sovente seguivano la guerra, così come diceva, con profonda ironia, questo illustre illuminista del ‘700, sono “due regali che ci vengono direttamente dalla Divina Provvidenza”.
E’ davvero una gran bella trovata la guerra che devasta le campagne, distrugge le abitazioni, porta lutti e rovine, fa morire uomini, donne, bambini, vecchi (morirono 600.000 giovani italiani, come mio zio Silvio nella guerra del 15-18).
L’invenzione della guerra fu coltivata dai primi popoli associati per il bene comune; per esempio l’assemblea dei Greci dichiarò all’assemblea dei Frigi e dei popoli vicini, che erano pronti a partire su un migliaio di barche da pescatori per andarli a sterminare se vi fossero riusciti.
Il popolo romano riunito in assemblea giudicava che fosse nel suo interesse andare a battersi prima della mietitura contro il popolo di Veio o contro i Volsci e poi dopo alcuni anni, contro i Cartaginesi.
Un Principe dimostrava ai suoi armati di avere diritto su una Provincia vicina in quanto un suo avo diretto di alcuni secoli prima aveva ivi una casata con feudi. Pertanto tale Provincia gli spettava per “diritto divino”.
A questo punto nulla valgono le proteste di quella Provincia. Si organizzava una spedizione per la guerra che sarà benedetta solennemente da Dio prima di andare a sterminare il prossimo.
Tutti marceranno verso il delitto sotto la bandiera del proprio Santo. Si pagherà dappertutto un certo numero di oratori per celebrare quelle giornate micidiali.
E che cosa importa più la bellezza della vita, di un tramonto, di un arcobaleno, e la saggezza, la bontà, l’educazione, la virtù, la pietà, quando un colpo di fucile fracassa il corpo di un giovane di vent’anni che muore tra tormenti indicibili in mezzo a centinaia di altri giovani morenti, mentre i suoi occhi si aprono per l’ultima volta e vedono la distruzione dal ferro e dal fuoco e gli ultimi suoni che odono le sue orecchie sono le grida delle donne e dei bambini che spirano sotto le rovine? Questa è solo una delle consuete scene della guerra che, quelli vecchi come e più di me, hanno visto 73 anni fa.
Il fratello di mio padre si chiamava Silvio Di Giovanni, come me. Era nato il 20 ottobre 1892 e morì in combattimento il 28 agosto 1915, dopo solo tre mesi che l’Italia era entrata in guerra, in una delle aspre battaglie della prima guerra mondiale al di là di Monte Nero (nella località di Monte Ursic più precisamente; come riporta la comunicazione del Comando 6° Reggimento Bersaglieri).
Fu una vera carneficina di giovani. Morirono in 89 i Bersaglieri non graduati del suo Reggimento, più 575 feriti e 13 dispersi dopo quell’infausto 24 maggio 1915. Mio padre rimase molto scosso dalla morte di questo suo fratello di dieci anni maggiore di lui e per tutta la sua vita portò questo ricordo con una certa venerazione e rabbia miste assieme.
Raccontava che suo fratello scriveva alla madre per raccomandarle di pregare per lui, perché tutti i giorni i suoi compagni di trincea morivano.
E’ da immaginarsi l’assiduità, con la quale la sera nell’aia, con la calura estiva della veglia contadina, mia nonna con tutto il parentado delle donne di casa, recitasse chissà quante di tutte quelle preghiere ed invocazioni al Signore, alla Vergine e a tutti i vari Santi che dovevano intercedere per preservare questo figliolo dall’enorme pericolo che stava correndo.
Ricordo i racconti di mio padre che, ragazzino tredicenne, alla vista dei Carabinieri a casa, messaggeri della ferale notizia, ripercorreva il dramma famigliare e l’ira furibonda di mio nonno che per reazione al dolore aveva scagliato nell’aia tutti i crocifissi e le icone di casa, ritenuti traditori della fede in loro riposta.
Il parroco, informato della cosa, con calcolata prudenza tacque per qualche tempo. Aspettò che si quietasse il clima e che si placasse la subitanea e furibonda ira di un padre così sconvolto.
Poi, una domenica pomeriggio, quando la famiglia contadina riposava nella quiete autunnale appollaiata nell’aia attorno a casa e quando la ferita lacerante cominciava a lasciar posto alla rassegnazione, arrivò bel bello sul suo calesse, ne scese, consolò mia nonna, ebbe parole che alla estrema ignoranza di poveri contadini fecero effetto e la domenica seguente ritornarono tutti a messa convinti che Dio avesse voluto il loro figliolo, perché anima eletta da portare con sé nell’alto dei cieli.
Mio padre non è mai stato credente e l’effetto di questo dramma famigliare deve averlo segnato profondamente fino da allora.
All’inutilità di quella guerra, che anche l’allora Papa Benedetto XV l’aveva definita: “l’inutile strage”, lui univa tutta la ipocrisia di alcuni prelati che in quelle occasioni sciorinavano il patriottismo misto alla fede verso un Dio che aveva sempre pronta ogni risposta risolutiva ed appropriata, sia per chi tornava a casa vincitore, sia per chi tornava defraudato dopo le promesse in trincea poi non mantenute e sia per chi non era più tornato ed il suo misero corpo di giovane contadino inesperto, appena uscito di casa, veniva sepolto così lontano, senza un cero che avesse illuminato per un’ora la sua tragica ed immatura conclusione della vita e senza il conforto di un fiore dalle mani di sua madre.
Da quel primo grande tragico conflitto mondiale, con circa 10 milioni di morti in combattimento tra: – italiani, francesi, inglesi, tedeschi, austriaci, ungheresi, rumeni, russi, serbi, turchi, portoghesi, indiani, statunitensi, canadesi, bulgari e con un’impressionante quantità di miliardi e miliardi di spese militari per armamenti e per le perdite conseguenti, un grande scrittore tedesco con un suo romanzo edito nel 1929, mise a nudo la tragedia morale e civile della guerra.
Si chiamava Erich Paul Kramer, ma era, ed è meglio conosciuto, con lo pseudonimo di: Erich Maria Remarque, nato nel 1898 e morto nel 1970 a Locarno. Nel 1916 a 18 anni fu un soldato tedesco sul fronte occidentale contro la Francia e delle tristi esperienze della guerra trasse materia per il suo romanzo ”Niente di nuovo sul fronte occidentale” tradotto in Italia due anni dopo, nel 1931. E’ una cruda testimonianza della prima guerra mondiale, un forte e potente atto di accusa contro la guerra che evidenzia il suo deciso antimilitarismo che lo costringerà a lasciare la Germania con l’avvento del nazismo. Da questo suo capolavoro nel 1930 fu tratto il film ”All’Ovest niente di nuovo” del regista Lewis Milestone premiato con l’Oscar.