(1934 – 2020)
La sua squadre corse. Sulla moto l’ingegner tedesco Moeller
Addio a Giancarlo Morbidelli, genio italico. Grande industriale, grande sportivo. Se n’è andato il 10 febbraio.
Giancarlo Morbidelli prima ha battuto i tedeschi nel lavoro. Nello sport, i giapponesi. Lo ha fatto nel più tipico stile del made in Italy: con l’ingegno e pochissimi, se non punto, mezzi iniziali. Nel lavoro riesce a far meglio dei teutonici; nello sport, con tre meccanici ed un ingegnere (tedesco), mette in cascina 8 titoli del moto-mondiale: quattro individuali e altrettanti marche.
La sua vita inizia nel 1934. Nasce a Pesaro, via Andrea Costa, oltre il fiume, dove un tempo c’era soltanto campagna; il babbo Arturo è mezzadro. Uomo intraprendente, con gli avanzi dei materiali bellici, costruisce ogni cosa: dai capannoni alle macchine utensili. Questi geni, forse migliori, sono le caratteristiche del figliolo.
Lo ricorda così: “Da mio babbo non ho mai visto i soldi, ma invitava sempre gli amici a mangiare”. E avere i dipendenti a tavola è sempre stato un motivo di fondo dell’avventura imprenditoriale, e umana, di Morbidelli.
Da ragazzo frequenta l’istituto tecnico. Il babbo cerca di indirizzarlo sulla falegnameria. Il figlio, invece, è attratto dalla meccanica: un amore. Al ritorno dal militare trova lavoro presso Canestrari. Allora, uno dei primi mobilieri di Pesaro, il giovane si occupa dell’assistenza e riparazione delle macchine utensili.
Arriva a far funzionare come un orologio una foratrice tedesca. Le macchine installate in Italia si rompono spesso; mentre quella di Canestrari no. Arrivano i tecnici dalla Germania, ammirano le soluzioni e fanno una proposta d’assistenza, per tutt’Italia, a Morbidelli.
Altri avrebbero accettato, al giovane si accende la lampadina. Risponde: no, grazie. Decide di progettare e realizzare la sua foratrice. L’azienda è un garage nel quartiere Soria, a Pesaro. La prima commissione è quella di Canestrari: stretta di mano, in bocca al lupo e ordine. Sarà un successo mondiale.
La prima volta che porta in Europa l’innovativa foratrice è da avventura. Da un amico si fa prestare un furgone; carica e via verso la fiera di Hannover, Bassa Sassonia, Nord della Germania.
Arriva, ma lo stoppano. Non ha prenotato lo stand. Dunque, niente esposizione. Il giovane non si perde d’animo. Entra, va da un imprenditore italiano e gli chiede ospitalità. Vende sette foratrici. E’ l’inizio di una cavalcata degna dei crescendi di Gioacchino Rossini.
Nel massimo splendore impiega circa 350 persone. Prima azienda del settore al mondo. Nell’88, quando capisce che il giovane figlio Gianni (sarà anche pilota Ferrari) seguirà altre strade, vende al colosso riminese Scm. Pensava di chiedere 10, ma gli offrono di più. Insomma, sarà un affare senza volerlo.
Ma come aveva fatto a fare una macchina che riesce a sbaragliare la concorrenza? “Sono stato fortunato – racconta con la luce negli occhi Giancarlo Morbidelli – devo tutto alla Benelli Moto. Parlo con gli amici meccanici, un ingegnere. E chiedo loro consigli e come sono fatti gli ingranaggi dei motori; nella meccanica si fa presto a sbagliare. Realizzo una foratrice con una base di 60 centimetri con tantissimi ingranaggi mutuati dalle moto che semplificano il lavoro di falegnameria. Mi è sempre piaciuto andare a bussare a chi era più bravo di me”.
A chi gli chiede qual è il segreto del fare impresa, risponde: “Ci vuole dolcezza. Non bisogna vantarsi dei successi. Bisogna essere amici, amici, amici. Perché bisogna essere cattivi? Quando i miei dipendenti avevano un problema, gli facevo capire che li potevo aiutare.
Se vuoi avere di più, devi essere umano. Pensare che il collaboratore è come te, che ha moglie, figli, che ha bisogno di lavorare. La vita è modestia. Detesto quelli che pensano di essere i padroni del mondo. Se sei bravo, devi insegnare agli altri ad essere modesto”.
La breve massima di saggezza, non vantarti se hai vinto e stringi per primo le mani a chi è arrivato dietro, era il consiglio ai suoi campioni di motociclismo: Nieto, Bianchi, Braun, Pileri, Lega, Huberts, Campanelli, Conforti, Ekerold, Enzo e Eugenio Lazzarini, Lucchinelli, Graziano Rossi (babbo di Valentino).
Ha corso con i suoi bolidi anche Giacomo Agostini. “Sono curioso di provare le tue moto che vanno fortissimo”, chiede il campionissimo.
Nella metà degli anni ‘70, inanellò otto mondiali: quattro piloti (Pileri, Bianchi e Lega) e quattro marche. Quelle moto portavano il suo cognome: Morbidelli. Erano, quei capolavori, la passione. Progettate e fatte in un’appendice degli stabilimenti. Cento metri quadrati dove lavoravano in cinque: tre meccanici coordinati da un geniale ingegnere tedesco, Jorg Moeller. Il quinto era lo stesso signor Morbidelli.
L’avventura sportiva inizia nel 1968 e termina nel 1980. Le sue “bambine” vanno subito forte; hanno un piccolo difetto: grippano di tanto in tanto causa la diversità di dilatazione di alluminio e ghisa nel cilindro.
Umile, sempre portato “a cercare quello più bravo di me”, sente che il suo tallone d’achille lo possano risolvere in Germania, dove utilizzano una tecnologia americana. Va e trova la soluzione e un ingegnere.
Per la prima, le pareti di alluminio vengono rivestite d’acciaio.
Per la seconda, il giovane tecnico si trasferisce volentieri a Pesaro, dove trova quelle virtù italiche che piacciono ai discendenti di Goethe: una certa spensieratezza, fantasia e buona tavola. Moeller poi si sposerà con una pesarese e vi metterà radici.
Quella moto fatta al tornio e genialità rigorosa batterà i colossi giapponesi, e non solo, sulle piste di tutto il mondo. La stampa si sbizzarrisce: “Morbidelli, le moto che mettono paura ai samurai”.
In parallelo alla costruzione dell’azienda e del reparto corse, Morbidelli inizia a collezionarle. Oggi, ne ha 350 (50 pezzi unici); la più antica è del 1904 ed è svizzera. Il Morbidelli è il più importante museo privato d’Europa e secondo al mondo. Prima c’è quello dell’amico Barber in Alabama, che ha una sala ”Morbidelli” con tutti i gioielli del genio pesarese.
Questo signore che dice, “Non so come mai amo così tanto le moto”, ha trasformato quell’officinetta di 100 metri che faceva tremare il mondo nella vetrina delle sue moto da corsa. Alle pareti, le corone d’alloro dei gran premi che hanno portato Pesaro e l’Italia nel mondo.