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Home Economia

Economia. Capitale, debito e piani di ripresa e resilienza

Redazione di Redazione
15 Gennaio 2021
in Economia
Tempo di lettura : 4 minuti necessari
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Vignetta di Cecco

Vignetta di Cecco

 

Tratto da lavoce.info

di Andrea Boitani, insegna Macroeconomia ed Economia Monetaria all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
e Enrico Giovannini, professore straordinario di statistica economica all’Universita’ di Roma “Tor Vergata”

Le classificazioni usate per definire e valutare le politiche economiche appaiono obsolete. Se decidesse di classificare come investimenti alcune spese oggi definite correnti, l’Unione europea dimostrerebbe che i suoi valori stanno veramente cambiando.

Debito cattivo e debito buono

I molti interventi realizzati per affrontare la pandemia da Covid-19 lasceranno inevitabilmente una pesante eredità di debito pubblico in tutti i paesi europei. In rapporto al Pil, il lascito previsto al nuovo anno sarà mediamente compreso tra i 20 e i 30 punti. Che la seconda ondata, in cui siamo ancora immersi, potrebbe far aumentare di altri 10-15 punti, secondo le previsioni di Oxford Economics. Inoltre, i prestiti erogati nell’ambito della Recovery and Resilence Facility, la parte più cospicua del programma Next Generation EU, verrà contabilizzata come debito dei singoli stati che li utilizzeranno, il che porterà a un ulteriore aumento del rapporto debito/Pil.

È quindi normale che crescano i timori sulla sostenibilità delle posizioni finanziarie di molti paesi, specialmente quelli già fortemente indebitati. Quando verrà il momento in cui la Banca centrale europea cesserà la sua politica di acquisti su larga scala, i tassi medi sul debito tenderanno a risalire, il che aggraverà i disavanzi pubblici e lo stesso debito. I più esposti a questi andamenti, in Europa, saranno i soliti: Grecia, Italia, Portogallo, Spagna, cui si potrebbe aggiungere la Francia.

Come ha notato Mario Draghi nel suo discorso al Meeting di Rimini del 2020, questo debito “sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi (…). Se cioè sarà considerato ‘debito buono’ (…). I bassi tassi di interesse non sono di per sé garanzia di sostenibilità: la percezione della qualità del debito contratto è altrettanto importante”.

Ma quali sono gli impieghi che possono rendere il debito pubblico buono? Molti risponderebbero che il debito che finanzia investimenti è buono mentre quello contratto per spese correnti è cattivo. C’è del vero, naturalmente. Sarebbe, però, una risposta insufficiente.

La distruzione di capitale pubblico netto

Un aumento degli investimenti lordi accresce il Pil, ma in una situazione come quella da cui veniamo e in cui siamo, dovremmo guardare soprattutto agli investimenti netti, cioè al netto degli ammortamenti, perché sono questi a sostenere davvero la crescita economica e quindi a migliorare la sostenibilità del debito, da questo punto di vista, va notato come la componente pubblica degli investimenti netti (figura 1) sia stata negativa a lungo nei paesi del Sud dell’Eurozona; in Italia, Spagna e Portogallo sempre, a partire dal 2012. E per alcuni anni si è sommata a investimenti privati netti negativi. L’effetto di questo andamento sulla quantità e la qualità dello stock di capitale è stato devastante: se poi consideriamo che l’obsolescenza dei beni-capitale che incorporano le nuove tecnologie è assai più rapida di quella relativa ai beni-capitale “tradizionali”, c’è il rischio che nei prossimi anni – in mancanza di un cambio di direzione – la distruzione di capitale pubblico netto acceleri ulteriormente.

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Ora, nella contabilità nazionale, il concetto di capitale è sostanzialmente limitato al capitale economico, ma sappiamo che ugualmente importanti per lo sviluppo di un paese e la sostenibilità dello sviluppo (come indicato dall’Agenda 2030 sottoscritta da tutti i paesi del mondo nel 2015) sono il capitale naturale, il capitale umano e quello sociale. Perciò, se facciamo debiti, che addossiamo alle generazioni più giovani e a quelle future, ma lasciamo a esse più capitale, stiamo accrescendo simultaneamente le attività e le passività dei nostri nipoti e pronipoti. Ma se guardiamo, come fanno le regole fiscali europee, solo alle seconde e non alle prime e se ci limitiamo al solo capitale economico rischiamo di avere una visione fortemente distorta della condizione di un paese, soprattutto in tempi di crisi climatica, di rapida trasformazione dei processi di produzione, di fragilità della coesione sociale, tutti fattori che accompagnano o che sono legati alla crisi da Covid-19.

Capitale e resilienza

Da qui bisogna partire per capire perché l’Unione europea – che ha fatto dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile il quadro di riferimento per tutte le proprie politiche – si aspetta che i fondi del Next Generation EU siano usati per investimenti orientati alla trasformazione ecologica, all’innovazione, all’aumento delle competenze e alla lotta contro le disuguaglianze, tutti fattori connessi alle diverse forme di capitale di cui abbiamo parlato. E il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) si chiama così perché o usiamo queste risorse per ricostituire le diverse forme di capitale distrutte dalla crisi o dobbiamo rassegnarci al fatto che i nostri sistemi socioeconomici, anche se tornassero ai livelli di Pil ante-crisi ma con un capitale depauperato, saranno più vulnerabili – non più resilienti – ai futuri shock di carattere climatico, tecnologico, geopolitico che ci aspettano, come illustrato nel 2020 Strategic Foresight Report della Commissione europea.

Se la ricostituzione del capitale naturale, di cui anche l’Europa continua a fare un uso molto intenso, rientra parzialmente nelle stime degli investimenti della contabilità nazionale (se le spese riguardano la riforestazione, la sistemazione dell’argine di un fiume o altro), le spese per ricostituire o aumentare il capitale umano e sociale sono in gran parte classificate come spesa corrente o sono totalmente dimenticate. La costruzione di un ospedale o di una scuola è un investimento, ma gli stipendi dei medici e dei docenti si trovano nella spesa corrente, anche se senza di essi non verrebbe erogato alcun servizio agli utenti e quindi il benessere della società non cambierebbe di una virgola. Il volontariato, così importante per la qualità della vita – spesso per la sopravvivenza – di molte persone, e quindi la coesione sociale, non è proprio contabilizzato nel Pil. Le spese per la formazione dei dipendenti compaiono tra i costi di un’impresa, e quindi un suo aumento diminuisce il valore aggiunto e i profitti, mentre l’acquisto di un computer o di un robot è un investimento, cui spesso sono associati benefici fiscali o sussidi.

Cambiare le convenzioni contabili aiuta

Insomma, la ricostituzione e l’accrescimento del capitale (specialmente di quello umano e sociale) richiedono che vengano aumentate – per un periodo di tempo determinato – anche spese che oggi i sistemi di contabilità classificano come spese correnti ma che, a guardare bene, sono vere e proprie spese di investimento. Le classificazioni usate per definire e valutare le politiche economiche appaiono ormai obsolete e fuorvianti, possono distorcere il dibattito pubblico su questioni delicate e importantissime, a partire dalla definizione dei Pnrr. La contabilità nazionale è una convenzione. Ma una convenzione che riflette i valori di una società e una comunità di stati. Se l’Unione europea decidesse di modificare (almeno in via sperimentale) la sua convenzione contabile in modo da classificare come investimenti le spese che si sono dette, darebbe dimostrazione che i suoi valori stanno veramente cambiando.

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