Tratto da lavoce.info
DI FRANCESCO ARMILLEI, Assistente di ricerca presso la Fondazione Ing. Rodolfo Debenedetti e socio del think-tank Tortuga
E TITO BOERI, economista, professore all’Università Bocconi
Si è discusso molto della salvaguardia di posti di lavoro spesso senza futuro e poco della necessità di recuperare il milione e mezzo di assunzioni mancate durante la pandemia. Che servirebbero anche a riassorbire gli inevitabili esuberi strutturali.
Il dibattito sui licenziamenti
Il confronto pubblico sul lavoro in Italia sembra concentrato soltanto sui licenziamenti. Del tutto ignorate le assunzioni. In realtà i licenziamenti sono stati molto contenuti durante il Covid e, come mostrato su lavoce, al momento non ci sono segni di accelerazioni dopo la fine del blocco dei licenziamenti nell’industria. Le crisi aziendali riprese ampiamente dai telegiornali fanno riferimento a situazioni che hanno ben poco a che vedere con il Covid-19 (la crisi c’era già prima) e con il blocco dei licenziamenti (delocalizzazioni e chiusura di aziende non possono essere evitate col blocco dei licenziamenti).
Il problema numero uno del nostro mercato del lavoro in questo momento è un altro: abbiamo troppo poche assunzioni. Questo tiene fuori la parte spesso più qualificata del nostro capitale umano e impedisce al nostro paese di cogliere molte opportunità di crescita nella fase successiva al Covid-19. Nelle prossime righe proviamo quindi a misurare il crollo delle assunzioni dall’inizio della pandemia, documentando come questo crollo abbia colpito soprattutto i giovani, per poi mostrare come la riallocazione seguita al Covid-19 possa offrire opportunità anche per chi rischia di perdere il lavoro.
Il crollo delle assunzioni
La figura 1 documenta il crollo delle assunzioni da marzo 2020. Mostra la variazione percentuale delle assunzioni rispetto allo stesso mese del 2019. I dati provengono da un campione delle comunicazioni fornite obbligatoriamente dalle imprese al ministero del Lavoro quando attivano contratti di lavoro subordinato (le cosiddette Comunicazioni obbligatorie). Se prima del Covid, nel gennaio-febbraio 2020, le assunzioni erano cresciute rispetto ai primi due mesi del 2019, gli altri mesi del 2020 registrano un calo delle assunzioni e un vero crollo a marzo-aprile e nell’ultimo trimestre. Complessivamente nel 2020, rispetto all’anno precedente, sono mancate all’appello circa 1,5 milioni di attivazioni, concentrate (come raccontato su lavoce) specialmente tra giovani, donne, lavoratori a tempo determinato, con basso livello di istruzione. E non ci sono segnali di un’inversione di tendenza nel primo trimestre 2021 (quello per cui i dati sono ad oggi disponibili): le assunzioni diminuiscono del 17 per cento. Da marzo 2020 a marzo 2021 abbiamo perso un’assunzione ogni cinque rispetto agli anni precedenti. I dati sulle assunzioni in Veneto, che coprono anche il secondo trimestre documentano un calo delle assunzioni anche ad aprile e maggio 2021 rispetto al biennio 2018-19, solo parzialmente compensato da una ripresa delle assunzioni (quasi interamente a tempo determinato e intermittente) a giugno.
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Le principali vittime del crollo delle assunzioni sono i giovani. Non solo perché per chi finisce la scuola o l’università, l’assunzione con contratto alle dipendenze è l’entrata principale nel mercato del lavoro e quindi gran parte (44 per cento) delle assunzioni ogni anno riguardano persone con meno di 34 anni, ma anche perché il crollo è stato percentualmente più consistente per i giovani che per gli altri gruppi di età, come si vede in figura 2. Continuare a non occuparsi delle assunzioni vuol dire perciò ignorare problemi in larga parte dei giovani. Problemi aggravati dal fatto che il settore pubblico, dopo anni di blocco di turnover, non ha ancora varato i massicci piani di assunzione previsti dal Pnrr. E la funzione pubblica sin qui ha varato concorsi che privilegiano chi lavora rispetto a chi deve ancora entrare nel mercato del lavoro.
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Assunzioni e riallocazione
Un rilancio delle assunzioni potrebbe servire anche a riassorbire i lavoratori coinvolti in crisi aziendali strutturali (per i quali la Cassa integrazione non può certo essere la soluzione, come ci indica anche la letteratura economica) e in generale aiuterebbe a rispondere alla riallocazione della forza lavoro tra settori che probabilmente ci attende nei prossimi anni. L’evidenza empirica sin qui disponibile (vedi per esempio qui, qui o qui) suggerisce che la crisi pandemica abbia accelerato cambiamenti strutturali già in atto e avviato altre trasformazioni, offrendo opportunità di impiego specialmente nei servizi.
La tabella 1 utilizza nuovamente i dati delle Comunicazione obbligatorie per guardare quali settori hanno offerto maggiori opportunità di assunzione dopo la pandemia. Si guarda, in particolare, alla quota di assunzioni di ciascun settore sul totale delle assunzioni, confrontando i dati del 2020 con quelli del 2019. Le maggiori nuove opportunità di impiego sembrano essersi concentrate nella filiera della salute e nei servizi alle persone. Diminuiscono invece più della media nazionale le attivazioni nei trasporti e turismo (in particolare alloggi, trasporto aereo, agenzie di viaggio).
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Quante di queste nuove opportunità possono essere sfruttate per trovare un lavoro ai lavoratori in esubero? Nell’immediato i servizi alle persone e l’assistenza sanitaria, oltre che le costruzioni e il settore agricolo, sembrano in grado di assorbire flussi di lavoratori in uscita dal settore manifatturiero. Dai dati delle Comunicazione obbligatorie emerge che, per esempio, ogni anno circa 130 mila lavoratori vengono assunti nei servizi essendo in provenienza dall’industria. Questo numero è calato in termini assoluti nel 2020 (scendendo a 90 mila) ma è cresciuto in termini relativi (rispetto al totale delle assunzioni nei servizi).
Nei servizi, soprattutto in quelli alla persona, ci sono molti lavori a basso valore aggiunto che offrono bassi salari, accanto a occupazioni che valorizzano il capitale umano e offrono prospettive di carriera. Da un lato occorre migliorare le condizioni dei lavoratori che accedono al primo gruppo di occupazioni provenendo da impieghi in imprese in declino, dall’altro serve cercare di favorire la crescita dei posti di lavoro nel secondo gruppo.
Oltre la Cassa integrazione
Ci vorrebbero perciò interventi che favoriscano le assunzioni facilitando le imprese a trovare il personale di cui hanno bisogno e incoraggiando i lavoratori in imprese che non hanno un futuro a trovare impieghi alternativi. Da mesi si parla di una riforma degli ammortizzatori sociali che, a quanto pare, si basa principalmente sull’estensione della Cassa integrazione alle piccole imprese. Ma la Cassa integrazione è uno strumento adatto per affrontare crisi temporanee, non cambiamenti strutturali nell’occupazione.
Fondamentale in questo momento lavorare all’incrocio fra politiche attive e passive del lavoro. Chi riceve la Naspi deve essere incoraggiato a spostarsi verso settori e occupazioni in espansione, ampliando la possibilità introdotta nel 2015 di cumulare inizialmente sussidio di disoccupazione e salario nel nuovo lavoro o integrando un salario più basso di quello che si aveva prima. Per questo ci vuole una amministrazione centrale in possesso di informazioni sulla carriera dei lavoratori, sui sussidi che ricevono e in grado di dialogare costantemente con i centri per l’impiego.
Un’Anpal intesa come cilindro collegato all’Inps poteva svolgere questa funzione. Sarebbe stata un’agenzia tecnica, in grado di fornire ai servizi regionali una comune base dati sui beneficiari delle politiche passive (Naspi, Cassa integrazione, Reddito di cittadinanza) per meglio calibrare gli interventi di attivazione; valutare le iniziative locali cercando di imparare tanto dai successi che dagli insuccessi, diffondendo la conoscenza delle esperienze estere; infine, commissariare le regioni che non sono in grado di mettere in piedi un servizio dell’impiego decente. Invece l’Anpal è stata nuovamente spezzettata e riportata sotto la direzione politica del ministero del Lavoro. Un’agenzia indipendente è fondamentale per valutare le esperienze fatte localmente nel facilitare l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Quello delle politiche attive è infatti un terreno di sperimentazione continua, in cui è fondamentale imparare dall’esperienza, in Italia e all’estero.
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