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Home Economia

Economia. Piano Meidner, cosa resta mezzo secolo dopo

Redazione di Redazione
18 Ottobre 2021
in Economia
Tempo di lettura : 4 minuti necessari
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Vignetta di Cecco

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Tratto da lavoce.info

DI RAFFAELE LUNGARELLA, già docente a contratto di economia applicata nell’università di Modena e Reggio Emilia
E FRANCESCO VELLA, insegna Diritto Commerciale e Diritto Bancario all’Università di Bologna

Cinquant’anni fa i sindacati svedesi avviarono un’ampia riflessione su politiche salariali e partecipazione dei dipendenti ai risultati d’impresa. Il risultato fu un piano che, seppur disatteso, costituisce tuttora un prezioso punto di partenza.

Cinquanta anni fa, nel 1971, il congresso della confederazione generale dei sindacati svedesi decise di avviare una riflessione ad ampio raggio sulla politica salariale mirante a collegare il salario al contributo del lavoratore alla produzione e non alla capacità o possibilità di pagare dell’impresa. Si costituì un gruppo di lavoro, diretto dall’economista Rudolf Meidner, che cinque anni dopo produsse l’ormai noto “piano Meidner“. Il piano avanzava alcune proposte sull’intreccio tra politiche salariali e partecipazione dei dipendenti ai risultati dell’impresa, sulle quali si discusse e polemizzò molto, non solo in Svezia. Ora che quest’argomento si riaffaccia nel dibattito culturale e politico, può essere utile una rilettura delle caratteristiche e della criticità del piano.

Lo schema del piano

Il “piano Meidner” si proponeva di collocare l’obiettivo – fondamentale per i sindacati svedesi – di ridurre le disparità salariali in una politica di più ampio orizzonte che consentisse di intervenire nella trasformazione dei profitti in capitale per: 1) contenere la concentrazione della sua proprietà nelle mani degli azionisti privati; 2) accrescere l’influenza dei lavoratori, attraverso i loro sindacati, nelle scelte aziendali e più generale sul processo di sviluppo economico.

Lo strumento veniva individuato nei “fondi di investimento dei lavoratori”, costituiti sul piano settoriale e coinvolgenti le grandi imprese. Il patrimonio si formava con le “emissioni di azioni ai lavoratori dipendenti”, con cui “la proprietà di parte dei profitti (fino alla soglia del 20 per cento) che sono rastrellati in un’azienda viene semplicemente trasferita dai vecchi proprietari ai lavoratori in quanto soggetto collettivo” (p.75), con l’obiettivo attribuire ai fondi voce in capitolo nelle scelte aziendali.

I punti critici

È evidente come la creazione dei fondi non comportava alcun costo per i lavoratori, ricadendo sulle imprese l’intero costo dell’operazione. D’altra parte, si trattava esplicitamente di una “espropriazione di parte del profitto” (p. 144) che implicava un intervento legislativo. Non va dimenticato che nel periodo di elaborazione del piano erano al potere i socialdemocratici, sul cui intervento i suoi estensori facevano evidentemente affidamento.

L’origine espropriativa del patrimonio dei fondi è un requisito indispensabile della politica di solidarietà salariale. La sola risorsa di cui dispongono è il loro reddito, cioè la somma dei dividendi incassati per le azioni possedute. Se quel reddito fosse ripartito solo tra i lavoratori delle imprese di elezione dei fondi, la forbice salariale potrebbe allagarsi anziché ridursi: essi aggiungerebbero i dividendi ai salari già più alti. La proposta di Meidner per evitare questo esito è la costituzione di un “fondo centrale di compensazione al quale sia incanalato tutto il reddito”, la cui distribuzione dovrebbe avvantaggiare i lavoratori occupati nelle imprese che realizzano bassi profitti e pagano bassi salari.

La coerenza di questo disegno politico-sindacale con alte probabilità verrebbe meno se la costituzione dei fondi aziendali o settoriali richiedesse ai lavoratori un sacrificio economico, per l’acquisizione delle azioni, consistente per esempio nella rinuncia agli aumenti salariali. Ma una politica di livellamento salariale in cui un gruppo di lavoratori finanzia, con il proprio reddito, l’aumento dei salari di un altro gruppo richiede una solidarietà di classe tanto forte che nemmeno la socialdemocrazia svedese di mezzo secolo fa ritenne di potervi fare affidamento.

Cosa resta

Il piano presentava indubbiamente molti punti problematici che portarono prima a un suo sostanziale annacquamento e poi a un successivo abbandono. Il suo impianto però, nell’ampliare gli spazi della partecipazione dei lavoratori al governo delle imprese e più in generale di democrazia economica, ha continuato e continua ancora oggi a esercitare una grande fascino, al di qua e al di là dell’oceano (quindi anche in paesi con contesti istituzionali e di relazioni industriali molto diversi). Direttamente o indirettamente, lo si può ritenere alla base di una sorta di grande laboratorio di idee e progetti di socializzazione della proprietà azionaria attraverso il trasferimento di azioni delle società a fondi collettivi, su base legislativa – e quindi con gli inevitabili vincoli – o su base volontaria, tanto che oggi c’è chi ne rivendica ancora l’assoluta attualità.

Leggi anche: I no vax in Italia? Meno di quanto si legge*
Un’attualità sicuramente favorita da un nuovo contesto nel quale molto si discute di come curvare l’attività di impresa tutelando tutte le diverse constituencies coinvolte e valorizzando orizzonti di lungo periodo con presidi sempre più ricchi e penetranti di responsabilità sociale. Tutti, dalle istituzioni agli attori economici, dalle istanze politiche a quelle sociali, sono alla ricerca di nuovi equilibri nei rapporti con gli stakeholder; una prospettiva nella quale la redistribuzione azionaria verso forme di proprietà collettiva può avere un ruolo importante (forse il più importante). In prossimi articoli torneremo su questi aspetti, che necessitano approfondimenti e declinazioni più organiche, ma il compleanno merita di essere celebrato anche guardando al futuro perché, nei patti tra lavoratori e imprenditori dei quali si parla oggi, esercizi di socialdemocrazia come quelli immaginati dall’economista tedesco (poi costretto a emigrare in Svezia per le persecuzioni naziste) possono essere una strada da percorrere per coniugare la partecipazione dei lavoratori con più ambiziose strategie di democratizzazione dell’economia.

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