Cristiano Varotti
Esce Nuvole di drago, romanzo d’esordio di Cristiano Varotti.
La trama
Nuvole di Drago segue le esperienze di un espatriato che da molti anni vive in Cina, nella megalopoli industriale di Changsha. Gli eventi del romanzo si verificano tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio 2020, nelle fasi iniziali e confuse di un contagio che non è ancora divenuto pandemia. Il protagonista vive con difficoltà la solitudine a cui è costretto dalla sua condizione di “alieno” in un paese estremamente complesso e culturalmente diverso. Il cemento che lo circonda, i grattacieli, il cielo scuro della città, l’opprimono. Può avvalersi solo della compagnia del suo cane e dell’aiuto di Jing, sua giovane assistente/interprete, con la quale stabilisce un rapporto d’affetto. Il protagonista si muove nella città confrontandosi con i suoi personaggi più improbabili, una moltitudine di pazzi. Un vecchio maoista che vive dentro un ascensore, uno gnomo ostile che cucina spaghetti orribili e cerca di rovinargli l’esistenza, un ricco ubriacone. Nelle sue relazioni superficiali ed estemporanee il protagonista non trova soddisfazione, la sua quotidianità sembra spinta dall’inerzia. Per fortuna, nella sua vita, c’è Jing. Lei lo invita a visitare il villaggio in cui è cresciuta, nelle campagne, in occasione del compleanno della nonna. Qui, il protagonista ha l’opportunità d’entrare in contatto con una versione della Cina inedita, il Paese nascosto della vita rurale e dei contadini che si spezzano ancora la schiena nei campi. Una Cina forse più umana, ma non per questo priva di sofferenze, e in ogni caso minacciata dall’avanzata della città con le sue periferie e tutto ciò che si trascina appresso. Qui, una sera, dopo aver picchiato l’attore di una compagnia teatrale travestito da Dio della creazione, il protagonista bacia Jing e sembra momentaneamente sollevarsi dalla sua condizione. Nei giorni successivi è chiamato a un impegno di lavoro a Pechino e, per una serie di circostanze, è costretto a rientrare a Changsha con un treno che impiega trenta ore per coprire il tragitto e che passa attraverso la città di Wuhan. E’ il periodo immediatamente precedente al festival di Primavera, il capodanno cinese. Durante il viaggio, il protagonista si accorge che l’atteggiamento della gente sta cambiando e molti indossano mascherine. La sua sensazione è confermata all’arrivo a Changsha, dove la polizia e gruppi di medici con tute protettive – gli astronauti – hanno iniziato ad applicare misure di contenimento dell’epidemia. Subito dopo essere arrivato a Changsha, il protagonista si ammala. I suoi sintomi fanno pensare che abbia contratto il nuovo virus. Viene quindi fermato da una delle squadre che stanno monitorando il suo compound e trasportato in ospedale. Qui, mentre i medici lo sottopongono ai test di routine, ha modo di riflettere sulle cause prime che hanno determinato lo scoppio di quella che ormai si profila come un’epidemia, e quindi la distruzione degli ecosistemi e dei fragili equilibri naturali da parte dell’uomo. Riconduce quelle considerazioni alla sua condizione, alle scelte della sua vita, confrontandosi con le storie del suo compagno di stanza, un vecchio allevatore di grilli. Il protagonista, che nel frattempo è risultato negativo al virus, viene dimesso. A quel punto, deve operare una decisione. Rimanere nella città, con le sue fredde geometrie e il senso di disagio opprimente, come imporrebbe peraltro il protocollo di contenimento, oppure fuggire e raggiungere Jing, in campagna, e lasciarsi alle spalle la solitudine, le complessità e la malattia. Il protagonista decide quindi di rompere la quarantena e fuggire verso la redenzione. Il viaggio è difficile da compiere, la città è sigillata. Lui si mette comunque in cammino attraverso periferie industriali e campagne, sotto l’occhio attento di una statua paternalista di Mao Zedong che però non sempre azzecca le sue previsioni. Sorpreso dalla tempesta, il protagonista trova un passaggio sulla motocicletta di un uomo che poi lo abbandona nel nulla, all’imboccatura d’un sentiero che s’inerpica sul fianco di una collina. Lui sale e trova una scala di pietra, e ancora più su, giunto alla sommità, scopre un tempio. Lì vive un monaco, solitario, che parla per enigmi taoisti e che lo accoglie. Inizialmente affascinato dalla spiritualità del luogo, lui considera la possibilità di rimanere e lasciare perdere tutto il resto. La scelta che il protagonista sembra dover operare è tra rinunciare, darla vinta al mondo, oppure decidere di prendere in mano il suo destino e ributtarsi nella mischia. Infine, sceglie di tornare da Jing e darsi un’altra possibilità di convivere con questa realtà imperfetta e i pazzi che la popolano, compiendo così un atto rivoluzionario quasi completamente irrilevante.
Cristiano Varotti
E’ originario di Novafeltria. Esperto di relazioni internazionali – laureato a Bologna e Firenze – e appassionato di Estremo Oriente, vive in Cina da un decennio. Si occupa di gestione di rapporti istituzionali, promozione del turismo e degli scambi tra Italia e Cina, dove è stato rappresentante della Regione Marche e corrispondente consolare nella Provincia dello Hunan. Attualmente è responsabile della sede di Shanghai di ENIT – Agenzia Nazionale del Turismo.
L’intervista
Com’è nata l’idea di questo libro?
“In realtà ho sempre scritto nella mia vita anche prima di trasferirmi in Cina. E’ una disposizione naturale che ho, una cosa che è sempre stata lì, nascosta sotto la cenere. Sono un lettore compulsivo, uno scrittore molto più discontinuo. Ho pubblicato qualcosa, racconti scritti sotto pseudonimo, quando ero giovane. Tuttavia non ho mai tentato seriamente la strada della narrativa, così come anche il mio approccio al giornalismo è stato poco più di un’infatuazione. Però ho sempre scritto, in un modo o nell’altro. Trasferendomi in Cina, tuttavia, l’ispirazione letteraria sembrava essersi definitivamente spenta. Saranno stati quei palazzoni grigi e il cemento, forse, o le complessità legate a dovermi quotidianamente adattare a una realtà in cui ero – e rimango – una sorta di corpo estraneo. Nell’ultimo decennio non ho scritto, ma in compenso ho vissuto moltissimo. Esperienze incredibili in un Paese pressoché infinito, complesso, profondo. Ho avuto l’opportunità di scoprire una nuova frontiera, ed è una faccenda per niente scontata. È, anzi, davvero eccitante. Ormai il mondo è minuscolo, sembra quasi non ci siano più spazi da esplorare. Per me è stato diverso. Mi sono trovato di fronte a praterie sconfinate e vuote, da riempire con la mia immaginazione e la mia curiosità. All’inizio del 2020, bloccato in Cina dalla diffusione globale della pandemia, ho deciso che valeva la pena provare a mettere sulla pagina alcune di quelle esperienze, romanzandole. Tornare a scrivere. Ed è così che, su una terrazza di Shanghai, in poco più di due mesi, è nato Nuvole di Drago”.
Perché questo titolo?
“Ho utilizzato le nuvole di drago come metafora dell’atteggiamento dei contemporanei verso la Cina, del pregiudizio e della totale mancanza di curiosità verso una cultura così complessa e verso un Paese che non rappresenta certo un blocco monolitico di sviluppo. Mi spiego. Quando ancora vivevo in Italia andavo spesso a mangiare nei ristoranti cinesi. Sulla mia tavola, immancabilmente, finivano le nuvole di drago (patatine bianche di farina di tapioca e gamberetti) e gli involtini primavera. Poi finivo il pasto con un sorso di grappa di rose. Tutte pietanze abbastanza insipide ma dai nomi esotici e alquanto evocativi. Per me la Cina era quella roba lì. Mi immaginavo dragoni volanti e foreste di bambù. Poi, a un certo punto della storia, mi sono trasferito in Cina e ho scoperto molte cose. Ho scoperto di essere stato ingannato. In dieci anni di vita in Oriente non mi è capitato mai, neanche per sbaglio, di vedere una nuvola di drago. Avrò forse visto un paio di involtini primavera quando ero in visita nel Guangdong. Della grappa di rose nessuna traccia (a differenza della grappa di riso, invece, che scorre a fiumi). Mi sono accorto che la rappresentazione che mi ero costruito della Cina – e buona parte dei miei contemporanei occidentali con me – non esisteva. Così come le nuvole di drago non sono nient’altro che una comoda semplificazione esotica della realtà, anche la nostra visione complessiva della Cina non è altro che una costruzione artificiale, come un’ombra proiettata sul muro di una caverna, che non ha pressoché nulla a che fare con la realtà. Da qui, il titolo: Nuvole di Drago. Significa che della Cina, a meno che non c’abbiate vissuto per un periodo significativo di tempo, non c’avete ancora capito niente”.
Come ha vissuto il periodo della pandemia in Cina?
“Durante la diffusione del virus, tra la fine di gennaio e la prima metà di febbraio 2020, mi trovavo ad Hengyang, nella Provincia dello Hunan, a casa dei suoceri. In quelle prime settimane non avevo l’esatta percezione delle dimensioni del fenomeno. Eravamo molto tranquilli. Uscivo a passeggiare con il cane, trascorrevamo il tempo in famiglia. Mi chiamavano telegiornali e programmi televisivi italiani, molti giornalisti, e tutti si aspettavano la descrizione di un’apocalisse. Ma il sistema cinese ha retto molto bene, ci sono differenze strutturali che in qualche modo hanno inibito la diffusione del virus. Di fatto, in Cina, le misure restrittive, il lockdown duro, sono state applicate solo nella zona dello Hubei. Il resto del Paese, con poche eccezioni temporanee e localizzate, non ha avuto problemi comparabili a quelli europei. In quel periodo, che peraltro coincideva con il capodanno cinese, ho traslocato da Changsha a Shanghai. Dopo quasi un decennio di vita nello Hunan, è stato un grande cambiamento. Shanghai oggi è il centro del mondo, ed escludendo l’Italia (che mi manca terribilmente) se c’è un posto in cui vorrei essere è proprio questo. Mentre il virus si diffondeva in Europa e nel resto del mondo, io stavo su una terrazza a Shanghai e scrivevo. Ero molto preoccupato per la mia famiglia e i mie amici, che non vedo da oltre un anno, e credo che questo abbia influito sull’atmosfera cupa che caratterizza Nuvole di Drago”.
Com’è invece vivere da straniero in Oriente?
“È necessario fare distinzioni. Distinzioni legate alla complessità della Cina, che non è un unicum dal punto di vista dello sviluppo economico e sociale, e distinzioni legate alle attitudini personali. Io ho una grande capacità di adattamento e riesco a vivere bene pressoché ovunque. Ai tempi dell’università ho trascorso un periodo nella foresta equatoriale del Ghana, dormendo in un sacco a pelo per terra, e stavo benone anche allora. Capisco però che un Paese come la Cina possa rappresentare una difficoltà insormontabile per chi non è disposto a uscire in modo radicale e traumatico dalla propria zona di comfort. Ci sono differenze enormi a livello di dinamiche interpersonali, consuetudini, abitudini gastronomiche, dimensioni. Anche la lingua, per chi non è sinologo (e io non lo sono), è un ostacolo non trascurabile. Tutte queste complessità sono ridotte in città ormai internazionali come Shanghai. Ma a Changsha, dove praticamente non esiste una comunità internazionale e il livello di apertura è molto limitato, serve pazienza. Quando arrivai in Cina, dieci anni fa, non parlavo una parola di cinese, non conoscevo nessuno e abitavo in una stanza d’albergo nella zona industriale della città, lontano milioni di chilometri da qualsiasi punto di riferimento. È stato un periodo difficile e bellissimo, pieno di possibilità. E in fin dei conti credo che il continuo cambiamento delle proprie circostanze sia ciò che rende davvero interessante il passaggio su questa terra. Oggi vivere qui è più semplice, con il bagaglio di esperienza che ho assemblato in questi anni, ma è anche meno interessante. E poi c’è da dire che la Cina, oltre a rappresentare una sfida, è anche un Paese bellissimo e stimolante. Parlando con gli espatriati come il sottoscritto, ho rilevato una percezione comune. L’impressione che qualcosa di buono stia sempre per succedere, che le nostre condizioni siano sul punto di migliorare. Una dinamicità che, è innegabile, in Italia abbiamo perso da tempo. In Italia, purtroppo, non c’è più il futuro di una volta. Qui, a Shanghai, il futuro è oggi”.
Come crede usciremo dalla pandemia a livello mondiale?
“La Cina ne è uscita rapidamente grazie alla convergenza di alcuni fattori che la differenziano dai sistemi occidentali. La coscienza collettiva e la responsabilità individuale, prima di tutto, che affondano le proprie radici nel pensiero confuciano. Ma anche la tecnologia, molto più diffusa e radicata nelle abitudini quotidiane di chi vive in Cina. Il sistema urbanistico e abitativo, il sistema di governo e la comunicazione pubblica. È inevitabile che in Occidente partiamo svantaggiati nella gestione di un’emergenza come quella che stiamo vivendo. È una questione di antropologia culturale e valori fondanti del nostro sistema, ma anche di gap tecnologico e insofferenza verso le regole. Credo che a questo punto ne usciremo solo con una ampia ed efficiente campagna vaccinale. Non vedo altre soluzioni”.