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Home Economia

Economia. Il merito, il mercato e la giustizia

Redazione di Redazione
6 Giugno 2022
in Economia
Tempo di lettura : 4 minuti necessari
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Vignetta di Cecco

Vignetta di Cecco

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Vignetta di Cecco

 

Tratto da lavoce.info

DI ANDREA BOITANI, insegna Macroeconomia ed Economia Monetaria all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano,

Come si definisce il merito? È necessario fare assunzioni, per esempio che coincida con la posizione sociale e che tutti abbiano pari opportunità. Esistono però le rendite, dovute alla scarsità e al grado di monopolio di imprese o istituzioni finanziarie.

Definire il merito è difficile

“L’idea di meritocrazia può avere molte virtù, ma la chiarezza non è una di quelle virtù”. Così iniziava, nel 2000, Amartya Sen un suo breve saggio su “Merit and justice”. Un’idea importante, la meritocrazia, su cui da Michael Young in poi – che in The Rise of Meritocracy del 1958 ha inventato la parola – periodicamente si discute molto (e soprattutto oggi, dopo la pubblicazione del libro di Michael Sandel, The Tyranny of Merit, 2020), ma che effettivamente non è molto chiara. Mentre è possibile definire con sufficiente precisione le “competenze” che sono necessarie per ottenere un certo lavoro e un posto in un corso universitario, molto più difficile è definire e misurare il “merito”, che porta con sé una inevitabile connotazione morale. Se dico che Giulia “merita un riconoscimento” sto dicendo che è giusto che Giulia abbia quel riconoscimento, perché ha compiuto (almeno) un’azione appropriata. E se dico che lo merita più di altri è perché ritengo che Giulia abbia fatto meglio di altri. Ma, per poter dire che Giulia ha compiuto un’azione buona o migliore di quelle altrui, devo avere una qualche nozione di società buona. Ovviamente, dire che una società è buona se premia il merito ci porta a una circolarità imbarazzante.

Una semplificazione, solo apparente, consiste nel pensare che il merito sia equivalente alla semplice somma di talento e sforzo. Ma, ci ricordano tanto papa Francesco quanto John Rawls (A Theory of Justice, 1971), il talento è in buona parte dono. Che poi sia dono divino, dono genetico o dono della comunità (familiare e sociale) in cui abbiamo vissuto i nostri primi anni o un misto di queste cose, rimane il fatto che il talento non può essere facilmente identificato con il merito, mentre è molto più semplice associarlo alle competenze. In parte diverso il discorso per lo sforzo. Anche esso, certo, contribuisce a definire le competenze e, tuttavia, può essere visto – assai più del talento – come una virtù propria dell’individuo (anche se esistono contesti comunitari che portano naturalmente a sforzarsi). D’altra parte, va riconosciuto che un’infermiera lavora duro e, quindi, si sforza, quanto e forse più di un manager. Come facciamo a dire chi merita di più?

Meriti, competenze e retribuzioni

Se guardiamo ai meriti specifici (competenze) ovviamente il confronto tra manager e infermiera non è possibile: servono qualità, competenze diverse, non confrontabili anche a parità di sforzo. Il confronto diventa possibile (e viene fatto continuamente) sulla base di qualche eroica assunzione. La prima è che tutti abbiano (e abbiano avuto) pari opportunità, la seconda (spesso implicita) è che il merito coincida con la posizione sociale, a sua volta approssimativamente misurata dalla retribuzione o dalla ricchezza. Così facendo si crea un parallelismo tra ricchezza/reddito e merito che permette non solo di affermare che la posizione sociale è segno del merito, ma anche di sostenere che il merito è l’origine e la giustificazione della posizione sociale.

Se così stanno le cose, se il denaro guadagnato o posseduto sono uno specchio fedele del merito, allora la meritocrazia si presenta effettivamente come un’unica grande gara, che coinvolge tutti gli appartenenti a una società, per le più elevate posizioni sociali, ovvero per le più alte remunerazioni (J. Feinberg, Doing and Deserving. Essays in the Theory of Responsibility, 1970). Spesso gli economisti (e dietro di loro l’opinione pubblica) hanno identificato il merito con qualcosa di più specifico della posizione sociale acquisita. Di preciso, l’hanno fatto coincidere con il contributo alla crescita del Pil o del “valore” di un’azienda. Da qui ne segue che enormi differenziali retributivi (e di ricchezza accumulata) vengono giustificati con argomenti solo apparentemente meritocratici, ma in realtà fondati sull’apprezzamento di mercato, come riconosceva molto più onestamente Friedrich von Hayek (The Constitution of Liberty, 1960). È proprio l’apprezzamento di mercato, non il merito in sé, che ha sostituito il privilegio della nascita nella determinazione della posizione sociale.

Il problema è che l’apprezzamento del mercato comprende rendite dovute alla scarsità (per esempio dei talenti sportivi, o musicali, o altri ancora) e al grado di monopolio di un’impresa o di un’istituzione finanziaria e dal quale il manager e l’azionista possono estrarre una parte, venendo così a mettere insieme remunerazioni che vanno ben oltre il merito individuale. Per non parlare del vero e proprio rent seeking e del crony capitalism, che pure fanno parte della realtà in cui viviamo. Inoltre, mercati caratterizzati da tecnologie che consentono il consumo congiunto e contemporaneo da parte di milioni di soggetti paganti (per esempio, le partite trasmesse dai canali televisivi a pagamento) permettono di esaltare l’estrazione di rendite da scarsità di talento (per esempio, dei calciatori). Tutte queste rendite implicano una significativa divaricazione tra retribuzioni di mercato e merito, inteso come contributo sociale effettivo di ogni individuo (M. Franzini, E. Granaglia, M. Raitano, Dobbiamo preoccuparci dei ricchi?, 2014).

 

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