di PAOLO MADDALENA, vice-presidente della Corte costituzionale della Repubblica italiana (2010–2011)
(tratto da Tpi)
Incredibilmente la propaganda elettorale da parte di tutti i partiti per le prossime elezioni politiche,
esclusa soltanto la lista Unione Popolare guidata da Luigi De Magistris, ha taciuto la vera causa di
tutti i nostri mali (inesistenza dei posti di lavoro, salari di fame, precariato, povertà assoluta,
indebitamento pubblico insostenibile, eccetera) e ha dato per scontato che l’attuale sistema
economico predatorio e incostituzionale del neoliberismo, costituisca un “dato naturale”. Si tratta di
una menzogna che deve essere smascherata, riportando alla luce le idee che hanno ispirato la
sostituzione del sistema economico-produttivo di stampo keynesiano, che ci aveva portato a essere
la quinta potenza economica del mondo, con il sistema predatorio e incostituzionale neoliberista,
che ha distrutto il «diritto fondamentale al lavoro» (articolo 4 della Costituzione) e, in palese
contrasto con l’articolo 42 della Carta, ha privatizzato cioè posto in concorrenza sui mercati e poi
svenduto l’intera proprietà pubblica demaniale, inalienabile e incomprimibile, del Popolo italiano,
riducendoci a essere lo Stato membro economicamente più debole dell’intera Unione europea. E
non è da sottacere che in questa opera di spoliazione ci si è spesso ispirati al programma della P2 di
Licio Geni. redatto da Francesco Cosentino, il cui fine era distruggere la democrazia e accentrare i
poteri nelle mani di poche persone, come vorrebbero Berlusconi (piduista della prima ora), nonché
inconsapevolmente la Meloni, che inneggia al presidenzialismo, e Salvini, che predica le autonomie
differenziate. L’idea portante di questo immane disastro è nelle seguenti parole pronunciate
Le privatizzazioni hanno rapinato il popolo Italiano
Da Berlusconi a Draghi il patrimonio pubblico è stato svenduto. Eppure quasi nessun partito mette
davvero in discussione il sistema predatorio neoliberista da Mario Draghi, il 2 giugno 1992, sul panfilo Britannia della regina Elisabetta, ancorato a
Civitavecchia, di fronte a cento delegati della City londinese e a tutti i rappresentanti degli enti
pubblici economici e delle aziende pubbliche italiane. Draghi disse: «Una ampia privatizzazione è
una grande, direi straordinaria, decisione politica che scuote le fondamenta dell’ordine
socioeconomico, riscrive i confini con il pubblico e privato …. Indebolisce un sistema economico in
cui i sussidi alle famiglie e all’imprese hanno ancora un ruolo importante»; aggiungendo che «i
mercati vedono la privatizzazione in Italia come la cartina di tornasole della dipendenza dei nostri
governi dai mercati stessi, dal loro buon funzionamento come principale strada per riportare la
crescita … E i mercati sono pronti a ricompensare l’Italia, come hanno fatto in altre occasioni». A
ben vedere è un pensiero terrificante, che esprime la necessità di una subordinazione della nostra
Costituzione alle cosiddette leggi del mercato, nelle quali esisterebbe quella immaginaria “mano
invisibile”, di cui parlava Adam Smith, che avrebbe giovato a tutti. Comunque, al di là delle parole,
sembra che questa dichiarazione presupponga la necessaria subordinazione dell’Italia all’Europa e
agli Stati Uniti, grandi sostenitori del libero mercato globale. Quello che sorprende è che Draghi
non valuta che, ponendo tutto sul mercato, se ne facilita l’acquisto da parte dei Paesi
economicamente più forti, e che normalmente le imprese privatizzate non restano nell’ambito
dell’economia italiana e passano prima o poi in mani straniere che ne traggono i relativi profitti. Per
di più sembra che Draghi non si renda conto del fatto che, se, per assurdo, i beni privatizzati
restassero nell’economia italiana, essi costituirebbero una “proprietà particellarizzata” e quindi
ingovernabile ai fini del perseguimento di interessi sociali, come vuole il terzo comma dell’articolo
43 della Costituzione. E pensare che fu proprio questa considerazione che spinse Federico Il di
Svevia, imperatore del Sacro Romano Impero, a emanare a Melfi, nel 1231, il famoso “Liber
Constitutionum” del Regno di Sicilia, che sottraeva al dominio utile (oggi diremmo alla «proprietà
privata») i beni di rilevanza sociale per destinarli all’uso pubblico, istituendo per la prima volta il
demanium (che in Costituzione contiene anche i servizi pubblici essenziali, le fonti di energia e le
situazioni di monopolio, art. 43). Insomma, Draghi e i più grandi partiti non pensano che lo Stato
comunità si regga anche con le accennate entrate extratributarie, le quali non possono e non devono
essere cedute a stranieri. Che gli elettori ne tengano conto.