DI RONY HAMAUI, professore a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Nei primi mesi dell’anno le borse mondiali hanno avuto un discreto andamento. Ma l’ottimismo degli operatori sembra eccessivo. Perché restano le spinte inflazionistiche e perché anche un cambio di rotta sui tassi potrebbe non far crescere i listini.
Il mercato azionario in una congiuntura difficile
“Sell in May and go away” recita un classico adagio popolare tra gli operatori finanziari anglosassoni. Significa che se nei primi mesi dell’anno sei riuscito a realizzare un buon risultato, forse conviene liquidare l’investimento (azionario) e aspettare tempi migliori.
In effetti esiste una discreta evidenza empirica che mostra come le borse mondiali tendono ad avere migliori performance nella prima parte dell’anno. La stagionalità potrebbe essere spiegata dai sistemi di incentivi, che incoraggiano i gestori a comportamenti prudenti una volta raggiunti ritorni in linea con i loro obiettivi o alla dinamica delle scadenze di natura fiscale. Tuttavia, come ogni regolarità euristica, anche questa va utilizzata con molta cautela specialmente in un contesto politico ed economico così incerto come quello attuale.
Nei primi mesi dell’anno le borse mondiali hanno avuto mediamente un discreto andamento: il Nasdq è cresciuto del 19 per cento, lo S&P 500 del 7 per cento, il Dax 30 tedesco del 12 per cento e il Ftse-Mib italiano del 10 per cento. Nondimeno, molti operatori rimangono ottimisti sul futuro del mercato azionario, poiché convinti che la fase di restrizione monetaria da parte delle principali banche centrali sia quasi terminata e nella seconda parte dell’anno i tassi d’interesse dovrebbero diminuire, almeno negli Usa.
La tesi ha tuttavia due debolezze. La prima ha a che fare con la persistenza del fenomeno inflazionistico e la conseguente prudenza delle autorità monetarie ad abbassare i tassi ufficiali. Esiste, infatti, una vasta evidenza empirica che mostra quanto l’inflazione core, che esclude il settore energetico e alimentare, sia un fenomeno che rientra molto lentamente, specie in un contesto di politiche fiscali espansive come quelle attuali. Inoltre, l’esperienza passata mostra quanto sia costoso per le banche centrali dover rialzare i tassi d’interesse una volta abbassati. Pertanto, le previsioni degli operatori su una rapida caduta dei tassi americani e a seguire di quelli europei appaiono alquanto ottimistiche.
La seconda debolezza ha a che fare con l’andamento delle borse in un contesto di rientro dei tassi d’interesse. Negli Stati Uniti, ad esempio, nei 14 principali cicli dei tassi d’interesse osservati dal 1929 a oggi, lo S&P 500 è mediamente salito di pochi punti percentuali nei dodici mesi successivi all’ultimo aumento dei tassi ufficiali. Tuttavia, la varianza è stata talmente alta che è difficile considerare questa media un previsore attendibile (vedi figura 1). Ad esempio, se è vero che nel 2018 e nel 2006, a un anno dall’ultimo aumento dei tassi ufficiali, l’indice azionario è cresciuto rispettivamente del 32 e del 16 per cento, è anche vero che nel 1929 e nel 2000 il prezzo delle azioni è crollato rispettivamente del 28 e del 15 per cento. In definitiva, i cambiamenti in senso espansivo della politica monetaria non sembrano accompagnarsi con alcuna regolarità borsistica, né prima né dopo il loro verificarsi.
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Figura 1 – Andamento dello S&P 500 (migliore, peggiore e medio) prima e dopo l’ultimo aumento dei tassi d’interesse della Fed dal 1929 ad oggi
Più in generale, appare cruciale la correlazione fra corsi azionari e prezzi obbligazionari (l’inverso dei tassi d’interesse). La correlazione sta anche alla base di un’altra regola del pollice particolarmente popolare nei paesi anglosassoni, cioè quella che un portafoglio ben equilibrato debba essere composto per il 60 per cento di azioni e per il 40 per cento di obbligazioni. Ovviamente la proporzione 60-40 è un po’ arbitraria. Ad esempio, Benjamin Graham, mentore del grande investitore Warren Buffet, suggerisce una più salomonica divisione 50-50.
Queste semplici regole hanno certamente alcuni importanti vantaggi. Non ultimo quello di indurre a un continuo ribilanciamento dei portafogli con la vendita delle attività che hanno sopra-performato a favore di quelle che sono rimaste indietro. E svolgono appieno la loro funzione quando l’aumento dei tassi d’interesse e la conseguente perdita di valore delle obbligazioni è compensata da un guadagno dei corsi azionari.
Tuttavia, nel lungo periodo la correlazione fra prezzi dei titoli azionari e obbligazionari è stata tutt’altro che stabile. Come mostra la figura 2, nel caso americano, è risultata mediamente positiva lo scorso secolo e in particolare dall’inizio degli anni Settanta fino al 2000, per poi diventare negativa nell’ultimo ventennio.
Per capire cosa determini il segno della correlazione è necessario comprendere come agiscono i principali driver macroeconomici. Le notizie positive sulla crescita, generalmente, aumentano i flussi attesi prodotti dai titoli azionari e quindi le loro quotazioni, ma anche i tassi d’interesse praticati dalle banche centrali, che provocano una caduta dei prezzi delle obbligazioni. In altri termini, i prezzi delle azioni e obbligazioni hanno una correlazione negativa. Quando, invece, abbiamo un aumento dell’inflazione, la previsione di una crescita dei tassi d’interesse riduce sia il prezzo delle obbligazioni che delle azioni, che solo formalmente offrono un rendimento reale stabile. Così la correlazione fra prezzi delle azioni e delle obbligazioni diventa positiva.
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Tutto questo ci aiuta a spiegare perché tra il 1970 ed il 2000, quando gli shock inflazionistici hanno avuto la meglio su quelli legati alla crescita, la correlazione fra prezzi delle obbligazioni e delle azioni è risultata positiva, mentre nei primi vent’anni di questo secolo, con un’inflazione bassa e poco variabile la correlazione è diventata negativa. Così, quando lo scorso anno l’inflazione inaspettatamente è salita, sia il mercato azionario che quello azionario hanno prodotto ritorni fortemente negativi, anzi i peggiori nell’ultimo secolo.
Ovviamente, i prezzi delle attività finanziarie possono essere influenzati da una serie di altre variabili, quali tensioni geopolitiche, pandemie, rischi di default, discussioni sul tetto al debito, che poi vanno a influenzare i dati sulla crescita e l’inflazione.
In conclusione, se si ritiene che le banche centrali abbiano già vinto la loro battaglia sull’inflazione e che i tassi d’interesse siano destinati a scendere rapidamente, è probabile che nei prossimi mesi sia i prezzi delle azioni che delle obbligazioni salgano. Se invece si pensa che l’azione delle banche centrali non sia ancora finita o sia destinata a produrre una recessione e quindi lo shock reale prenda il sopravvento su quello inflazionistico, le borse non sono destinate a salire. In questo caso, un investitore non troppo propenso al rischio preferirà puntare sull’obbligazionario che, oltre garantire un onorevole flusso di cedole, magari farà guadagnare qualcosa in termini di plusvalenze.
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