Tratto da lavoce.info
DI GIOVANNI FATTORE, professore ordinario dell’Università Bocconi
Il Sistema sanitario nazionale va preservato. Per farlo serve una programmazione sanitaria che tenga conto delle previsioni demografiche e di domanda. Il contrario di quello che avviene oggi, quando si chiedono più medici, mentre mancano gli infermieri.
La situazione per i medici
Il dibattito sulla carenza di professionisti sanitari in Italia è provinciale e semplicistico. Una discussione più approfondita si può aprire partendo dai dati dell’Ocse, i più affidabili e con le serie storiche più lunghe. Se ne ricava, ad esempio, che l’Italia ha un numero di medici per mille abitanti in linea con la media dei paesi sviluppati.
Nota: la media UE non è ponderata. 1. I dati si riferiscono a tutti i medici autorizzati a esercitare la professione, con conseguente sovra – valutazione del numero di medici in attività (ad es. del 30% circa in Portogallo). 2. I dati comprendono non solo i medici che forniscono assistenza diretta ai pazienti, ma anche quelli che lavorano nel settore sanitario come manager, educatori, ricercatori, ecc. (aggiungendo un altro 5-10% di medici). 3. Non sono inclusi i tirocinanti e i residenti. 4. Gli ultimi dati si riferiscono solo al 2017. 5. Gli ultimi dati si riferiscono solo al 2014.
La dotazione italiana di medici praticanti è più alta di quella di Olanda, Slovenia, Belgio e Francia. Meglio dell’Italia, se così si può dire, fanno Grecia, Norvegia, Svizzera e Islanda.
La Grecia non ha ancora oggi il numero chiuso a medicina. Norvegia e Islanda sono paesi molto ricchi e con una densità abitativa bassissima; la dispersione della popolazione richiede una capillarità della distribuzione dei medici, malgrado l’utilizzo della telemedicina. La Svizzera ha un sistema sanitario molto complesso e dominato dalle assicurazioni private. Qui l’ipotesi più probabile è che vi sia sovra-produzione di servizi sanitari con conseguente eccesso di domanda di medici.
Un problema specifico dell’Italia è l’elevata età media dei medici, frutto di politiche di programmazione e posti nelle scuole di specialità miopi, quando non addirittura coscientemente sbagliate.
Una possibile soluzione potrebbe essere un temporaneo innalzamento dei numeri degli studenti di medicina, ben calibrato su un’analisi della futura domanda nelle diverse specialità, tenendo anche conto che l’effetto di lungo periodo dell’intelligenza artificiale dovrebbe andare verso la diminuzione generalizzata del fabbisogno di medici.
Mancano gli infermieri
Al contrario di quanto accade per i medici, la situazione delle professioni infermieristiche è ben più grave.
Nota: la media UE non è ponderata. 1. I dati comprendono non solo gli infermieri che forniscono assistenza diretta ai pazienti, ma anche quelli che lavorano nel settore sanitario in qualità di manager, educatori, ricercatori, ecc. 2. Gli infermieri professionisti associati con un livello inferiore di qualifiche costituiscono il 70% o più degli infermieri in Croazia, Romania e Serbia; circa il 60% in Slovenia; circa il 33% in Svizzera e Islanda; e circa il 20% nel Regno Unito. In Svizzera, la maggior parte della crescita dal 2010 è in questa categoria. 3. La Grecia segnala solo infermieri impiegati in ospedale. 4. Gli ultimi dati si riferiscono solo al 2017. 5. Gli ultimi dati si riferiscono solo al 2014.
L’Italia è sotto di due infermieri per mille abitanti rispetto ai paesi dell’area Ocse. Mancano in sostanza 12 mila infermieri. Tutti i paesi comparabili al nostro per Pil pro capite ne hanno un numero superiore, fino ad arrivare alla Germania, che ha il doppio del valore italiano.
Si tratta di numeri che parlano da soli e indicano come l’attuale dibattito sia malinformato e foriero di scelte sbagliate. E anche in questo caso occorre tenere in conto gli effetti dell’intelligenza artificiale: in futuro ci sarà un crescente bisogno di personale che stia vicino ai malati e ai fragili, effettui le prestazioni, aiuti pazienti e caregivers a migliorare l’aderenza terapeutica.
Il dibattito è semplicistico perché rimane in mano ai soliti noti: esperti non preparati in programmazione sanitaria, che include capacità modellistiche di previsioni demografiche e della domanda, e spesso con pesanti conflitti d’interesse. Sono infatti gli stessi medici, generalmente universitari, a definire le politiche sul personale. Alcuni esempi: mancano le scuole di specialità per i medici di medicina generale perché le associazioni di categoria vogliono essere coinvolte nella formazione in scuole regionali e sono pochissime le cattedre di medicina di famiglia; gli anestesisti, soprattutto nelle zone dove il privato è molto forte, sono usciti dal pubblico perché lavorare a gettone è molto più remunerativo. Ragionamenti per certi aspetti simili si possono fare per ginecologici e oculisti.
In tutto il mondo si chiedono come il Sistema sanitario nazionale italiano regga a una situazione di sotto-finanziamento così grave. È difficile dare una risposta: forse, semplicemente, perché è il frutto di una grande riforma realizzata nel 1978, approvata da quasi tutto il Parlamento e dopo un lavoro preparatorio durato 30 anni. Tuttavia, se non gestito bene il Ssn rischia di implodere, malgrado popolazione e politica concordino sul suo grande valore.
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