DI VALENTINO LARCINESE, ordinario alla London School of Economics and Political Science
Negli scontri geopolitici una comunicazione a senso unico può contribuire a fomentare odio e violenza. In altri casi, gli eserciti aspettano che l’opinione pubblica sia distratta da altre notizie per attaccare. Quando i giornalisti sono il “nemico”.
L’importanza della narrazione
In quello che è probabilmente uno dei primi libri dedicati interamente alla comprensione di cosa sia e come si formi l’opinione pubblica, il giornalista Walter Lippman affermava che “il mondo con il quale ci rapportiamo politicamente non è raggiungibile, non è visibile, è fuori dalla nostra testa (it’s out of mind). Deve essere esplorato, riportato e immaginato”. Dunque, le nostre percezioni, le nostre idee e azioni nella sfera della politica devono basarsi su immagini della realtà che ci vengono fornite da altri. Che tipo di immagini vengono trasmesse, chi le seleziona, chi decide cosa dire e cosa non dire e come dirlo è, perciò, di importanza cruciale per il funzionamento delle democrazie, per la selezione dei politici tramite le elezioni e poi nel responsabilizzarli verso l’elettorato.
Vale a maggior ragione per le guerre e per i conflitti in generale. Lo scontro geopolitico è anche uno scontro di comunicazione, di narrative che durante i conflitti pongono le relazioni internazionali in termini di guerra del bene (noi) contro il male (il nemico) e possono arrivare al punto di deumanizzare il diverso, l’altro.
Che conseguenze può avere questo tipo di rappresentazioni e di narrazioni in situazioni di conflitto? Diverse pubblicazioni recenti suggeriscono che i mass media e la comunicazione a senso unico possono svolgere un ruolo che, seppure non decisivo, è certamente importante nel fomentare l’odio, l’intolleranza e la violenza.
Ad esempio, nel 1994 in Rwanda furono sterminate almeno 500mila persone della minoranza etnica tutsi. La pulizia etnica fu pianificata dal governo a maggioranza hutu e i massacri furono condotti sia da gruppi paramilitari che da cittadini ordinari. Uno studio dettagliato di quegli eventi mostra che la diffusione di una particolare stazione radio (la Radio Television Libre des Mille Collines) ebbe un ruolo importante nel diffondere messaggi di odio e di incitamento alla violenza contro i tutsi. Lo studio mostra che in villaggi raggiunti dalle onde radio vi fu maggiore violenza e stima che almeno un 10 per cento della partecipazione agli atti di violenza fu causata dalla radio.
Per citare altri esempi da una letteratura ormai piuttosto vasta, la radio avrebbe favorito il rafforzamento del partito nazista e l’incidenza di pogrom contro la popolazione ebrea in Germania negli anni Trenta e, più di recente, avrebbe rafforzato il nazionalismo e l’odio fra serbi e croati.
Agire quando il mondo non guarda
L’attenzione mediatica può anche condizionare il tempismo di particolari azioni belliche. È quanto emerge, ad esempio, da uno studio del conflitto israelo-palestinese. Gaza è stata bombardata ripetutamente, quasi ogni anno negli ultimi quindici. Anche i rastrellamenti nei villaggi in Cisgiordania e le esecuzioni mirate di leader della resistenza palestinese sono eventi molto frequenti. Attraverso una robusta evidenza statistica, lo studio mostra che l’esercito israeliano, quando è possibile, cerca di effettuare queste azioni quando l’opinione pubblica occidentale, e in particolare quella americana, è distratta da altre notizie. Ad esempio, quando sono in corso importanti eventi sportivi o quando una catastrofe naturale causa distruzione sul suolo degli Stati Uniti.
I comandanti dell’esercito, dunque, si aspettano che immagini di bambini feriti, abitazioni civili sventrate e così via abbiano un effetto negativo sulla opinione pubblica americana e cercano pertanto di bombardare in momenti in cui quelle immagini non troveranno spazio in giornali e telegiornali già troppo impegnati con altri eventi, più vicini e che più direttamente assorbono l’attenzione del pubblico americano in quel momento. Questa strategia, che lo studio ha reso evidente da un punto di vista statistico, viene non di rado enunciata esplicitamente da membri del governo o da comandanti dell’esercito. Ad esempio, il Jerusalem Post del 19 novembre 1989 riporta che durante un intervento all’università Bar-Ilan di Tel Aviv, il più grande ateneo israeliano, Benjamin Netanyahu avrebbe detto “Israele avrebbe dovuto sfruttare la repressione delle dimostrazioni in Cina, quando l’attenzione del mondo era concentrata su quel paese, per effettuare una espulsione di massa degli arabi dai territori occupati. Purtroppo, non c’è stato supporto per questa decisione che io ho proposto e che ancora raccomando”. Netanyahu si riferisce evidentemente agli eventi di piazza Tien An Men, che erano avvenuti pochi mesi prima.
Questo ci aiuta forse a capire meglio cosa è successo in Palestina negli ultimi tempi. È interessante notare ad esempio come la guerra in Ucraina, che ha occupato per un anno e mezzo le prime pagine dei media occidentali, abbia offerto un’ottima opportunità al governo israeliano. Con tutte le telecamere rivolte sull’Ucraina, le violenze e le intimidazioni contro i palestinesi nei territori occupati da Israele si sono infatti notevolmente intensificati senza che questo attirasse l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale. Usando dati dello United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs, dal 24 febbraio 2022 (data dell’invasione russa dell’Ucraina) al 6 ottobre 2023 (il giorno prima dell’attacco di Hamas in territorio israeliano) in Cirgiordania sono state uccise 601 persone, ossia un numero di poco inferiore al totale degli uccisi nei precedenti quindici anni (674). Nel solo 2023 (e prima dell’attacco di Hamas) i morti sarebbero stati 457.
Sarà interessante verificare se gli attacchi e i bombardamenti dei russi in Ucraina si siano intensificati nei mesi in cui l’attenzione mediatica si è totalmente spostata sul conflitto israelo-palestinese.
La strage dei giornalisti
In questo quadro si inserisce il fatto che, da un lato, ai giornalisti è stato vietato l’accesso alla striscia di Gaza e, dall’altro, che in tre mesi, sono stati uccisi almeno 80 dei giornalisti che già erano presenti a Gaza. Reporters without Borders ha ammonito che Israele ha quasi completamente sradicato il giornalismo da Gaza.
In dieci anni di guerre in Jugoslavia, dal 1991 al 2001, che hanno coinvolto Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Kosovo, sono stati uccisi in tutto 28 giornalisti. In due anni di guerra in Ucraina ne sono stati uccisi 17. L’uccisione di 80 giornalisti da parte di Israele in soli tre mesi costituisce una strage senza precedenti, che meriterebbe maggiore attenzione da parte dei loro colleghi occidentali.
L’estremo pericolo per i giornalisti in questo contesto di guerra ha contribuito a creare una narrativa probabilmente distorta e a senso unico del conflitto. Questa narrativa può inasprire i conflitti e può uccidere. Chi sa che avrà sempre e comunque un trattamento di favore dai mass media sa anche di poter procedere senza troppi scrupoli nei confronti della popolazione civile, violando le leggi internazionali in modi che sarebbe difficile giustificare di fronte a una opinione pubblica meglio informata.
* L’articolo riassume l’intervento dell’autore al Convegno annuale de lavoce.info del 14 dicembre 2023, dedicato a “L’economia alla prova delle crisi geopolitiche”.
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