di Gianfranco Vanzini
In occasione della festa del papà vorrei fare alcune considerazioni sulla legge 194 del 1978 la
cosiddetta legge sull’aborto. La legge riguarda essenzialmente due soggetti: la donna e il
medico, e un oggetto: il bambino. La donna è citata 48 volte (una sola volta si parla di madre) il
medico 24 volte, il bambino, chiamato feto o concepito, soltanto 7. Già questo dovrebbe
spingere a qualche riflessione, ma c’è un assente inaccettabile, c’è un convitato di pietra, il padre
che compare solo quattro volte. E può dire qualcosa solo se e quando la donna lo consenta e
qualora la stessa lo indichi come padre del concepito. Molti padri si rassegnano a questa
impotenza alla quale la Legge li relega e devono accettare, anche quando non vorrebbero, di
non poter abbracciare i loro figli. Praticamente la legge 194 insegna agli uomini che si può
tranquillamente usare il corpo della donna e fregarsene delle conseguenze. È la tipica
eterogenesi dei fini, una legge che nasce per proteggere le donne e che rischia di trasformarle in
un semplice oggetto di piacere.
Un primo passo per una maggiore responsabilizzazione dei futuri padri potrebbe essere quello
di coinvolgerli maggiormente in questa decisione molto seria, per le conseguenze che ne
derivano e che riguarda i diretti interessati e il nascituro che ha il diritto di vivere.
Sarebbe un modo per riconoscere gli uomini che non si tirano indietro, che non hanno paura,
che non si nascondono (non sono pronto per diventare padre) uomini che non mettono se stessi
al primo posto, ma che si impegnano a proteggere e a provvedere alla propria donna e alla
propria famiglia, anche quando può sembrare prematuro o non conveniente. Uomini veri,
uomini che sanno che accettare la paternità può portare a una vita non facile né comoda, ma
che sanno che l’amore tra un padre e un figlio produce i momenti più belli della vita.