di RITA CELLI
Rischiare la vita ogni giorno in un luogo di guerra, per aiutare donne e bambini feriti. Per il giovane sergente Riccardo Triani, far parte del Corpo militare della Croce Rossa Italiana, è tutto. Nonostante la paura e la fatica, la missione svolta in Afghanistan poco meno di un anno fa, è stata per lui qualcosa di indimenticabile. Che lo ha portato anche a ricevere l’elogio militare e la medaglia Nato a fine missione. «Sono infermiere militare e dal 2008 faccio parte del Corpo militare della Croce Rossa Italiana – racconta il 27enne di Novafeltria – Dopo un lungo addestramento nel 2011, ad aprile scorso sono stato destinato ad una base di frontiera nel Gulistan. Proprio in quella base, pochi giorni prima, era morto l’ultimo italiano per un colpo di mortaio». Un luogo di povertà assoluta. «I bambini sono malati di leishmaniosi, che in Occidente colpisce oggi solo gli animali, per colpa delle condizioni igieniche pessime».
Quale era il suo compito?
«Ero adibito alla cura dei militari italiani, ma organizzavo, insieme ad un medico e ad un altro infermiere, anche dei punti di cura nei villaggi più isolati. Il problema più grande è quello delle ferite da guerra. I talebani creano mine di fortuna pericolosissime che posizionano e spostano in pochi minuti. Quando ci muovevamo a bordo dei fuoristrada, dovevamo stare molto attenti. Se scendevamo, al massimo potevamo girare intorno al mezzo».
E’ mai morto qualcuno davanti ai suoi occhi?
«Una volta è scoppiata una mina a soli venti metri di distanza. Ma fortunatamente ci sono stati solo dei feriti».
Il suo intervento più importante?
«Quando ho curato una bambina, saltata sopra un ordigno. Si era rotta il femore ed era stata operata, ma senza buoni risultati. Con dei cartoni e dei mezzi di fortuna, ho cercato insieme ad altri colleghi di sagomare dei gessi per il suo bacino. Con gli altri militari della base abbiamo anche fatto una colletta per pagarle una nuova operazione. Suo padre si faceva tutti i giorni 5 chilometri a piedi, con in braccio la piccola, per avere le nostre cure. Sono momenti che non dimenticherò mai».
La guerra finirà mai, secondo lei, in quei Paesi?
«E’ uno scontro continuo. La tregua c’è solo in primavera, quando le popolazioni devono raccogliere l’oppio, principale fonte di sostentamento. L’esercito italiano è là perchè vuole creare delle collaborazioni con la popolazione, per non far prestare loro aiuto ai talebani. Ma è davvero difficile».
Nella vita di tutti i giorni, lei è un infermiere del 118.
«Sì, mi sono iscritto a Scienze infermieristiche nel 2005 e mi sono laureato nel 2008. Ma ho sempre avuto un forte interesse per le forze dell’ordine. Anche mio padre militava nell’Aeronautica. Per questo motivo, ringrazio tantissimo l’Ausl di Rimini che mi ha permesso di andare in missione. Quando torni da una esperienza come questa è tutto diverso. La vita ti sembra diversa».
Dopo questa esperienza, vorrebbe tornare nuovamente in missione?
«Sì, anche se il rischio è grosso. La missione più grande la fanno i miei familiari. In molte occasioni ho avuto paura per la mia stessa vita, ma aiutare gli altri per me è una cosa importante, ne vale la pena».
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