di ALBERTO BIONDI
Ci sono romanzi che per loro natura esulano da ogni classificazione. Dalla prima all’ultima pagina il lettore può cercare di inquadrarli in un canone di riferimento, in un genere di appartenenza, arrovellandosi per scegliere la giusta etichetta da affiggere in copertina, ma a volte è semplicemente impossibile. Eppure ci proviamo lo stesso, con tutta la forza della nostra intelligenza, perché dare un nome alle cose significa delimitarle, ci rassicura; e quando non ci riusciamo subentra l’inquietudine. Se un romanzo non si concede a facili incasellamenti le opzioni sono due: o è un delirio o è un capolavoro. “Rinuncio” di Davide Brullo (Guaraldi, 135 pagg. 12,90 euro) porta con sé i germi di entrambi, ergo è ciò che personalmente chiamo alta letteratura.
Mi spiego meglio: un libro che non inquieta il lettore, che non lo scaraventa sul ciglio di un baratro, non sarà mai un’opera d’arte. Le leggi del mercato editoriale premiano chi riesce a intrattenere, divertire, narcotizzare, perché se è vero che in Italia si legge poco è anche vero che in testa alle classifiche troneggiano i comici, gli incantatori, i fornai di best-seller. Romanzi che confortano e a modo loro gratificano.
“Rinuncio”, invece, è un raffinatissimo pugno allo stomaco, scritto per ferire, turbarci, per essere opera d’arte prima ancora che romanzo. E come tale lo si può solo definire “difficile” sotto ogni sfaccettatura: difficile nella materia trattata, difficile nello stile, nei simboli, nei temi, nella struttura. Davide Brullo ha compiuto un’impresa letteraria sconcertante: raccontare con l’espediente narrativo dell’uovo di Colombo (un libro nel libro, per capirci) l’esilio monastico del “papa emerito” Benedetto XVI, ricostruendo i suoi ultimi giorni attraverso lettere fittizie, frammenti, pensieri scarabocchiati accanto a poesie e sulle lenzuola del proprio letto. Alla morte di Joseph Ratzinger, un monaco raccoglie questo corpus di riflessioni e le conseguenze della loro diffusione non tarderanno ad arrivare. In gioco c’è l’integrità stessa della Chiesa.
Come hanno avuto modo di puntualizzare Piero Meldini, Ennio Grassi e l’editore Mario Guaraldi durante la presentazione del libro alla Mondadori (nella rassegna “All’Armi” di cui il programma completo QUI) “Rinuncio” è un’opera di letteratura religiosa che non fa catechesi o proselitismi, ma scava nell’esistenziale mettendo in discussione la natura stessa del cristianesimo. Un libro “eretico” e al tempo stesso impregnato di un misticismo assoluto, che nella sua ricerca si spinge ai limiti del sublime e del blasfemo. In linea con ciò che da sempre caratterizza la fede cristiana: il paradosso. Ecco che allora la rinuncia di Benedetto XVI acquista nel libro una dimensione ascetica, in cui la fragilità della carne diventa stimmate di un martirio totale. Materia di letteratura.
Brullo è maestro nel frugare tra le pieghe più inenarrabili dell’anima attraverso un linguaggio “scarnificante” che spezza la sintassi, gioca con le allitterazioni, sfrutta tutta la violenza di cui è capace il verso poetico per scolpire le parole sul foglio. Qui un piccolissimo esempio tratto da una lettera immaginaria di Ratzinger: “da vicario di Cristo sono, ormai, agli occhi della Chiesa, il pupillo del demonio. Da quando ho abbandonato il trono pontificio, che amo chiamare “tenda di Dio”, sono preda di demoni. La tenda mi sembra il simbolo adatto per descrivere la Chiesa: il cristianesimo è in esilio da Dio, si accampa dove è necessario, vive la transitorietà. Basta una tempesta per scardinare la tenda, mutandola in aquilone. Il cristiano sa di essere il bersaglio del male, non ne schiva gli assalti né ha premura di difendersi. Anch’io, dunque, abbraccio il male, accarezzo i capelli e il viso di Satana, ho misericordia della sua ira, della sua divampante invidia”.
Nel romanzo non mancano stilettate alle stesse istituzioni ecclesiastiche, come “Non accettare alcun ruolo di dominio, ancor meno se “a fin di bene”, perché il potere non ammette altro fine che il male e corrompe chiunque lo abita – soprattutto i religiosi” oppure “[i sacerdoti] sono esperti di denaro più che di Dio e parlano della resurrezione come di un pattuito stipendio. La vita della Chiesa è diventata una devastante inversione di termini: si parla di “preghiera” per dire “mercantaggio”, il deserto è un’aula di ricevimento, il confessionale la vorace finestra del guardone, Dio è l’uomo, il fedele che occorre compiacere, la povertà è sostituita dal bisogno di successo. L’uomo di Chiesa deve conquistare anime da porgere in pasto a Dio, il carnefice”. Nel romanzo ricorrono con incidenza quasi liturgica gli stessi simboli: i lupi, il lago, la foresta, l’abisso, che danno vita ad un immaginario gotico perfetto per caratterizzare le visioni “germaniche” di un Ratzinger esiliato sui monti. L’animale che spicca tra tutti è la tigre, che già il visionario poeta inglese William Blake (simile a Brullo per carica mistica) scelse come rappresentazione del fascino e del potere distruttivo di Dio nelle sue “Songs of Experience” del 1794.
Tra i vari frammenti compare anche la figura di papa Fancesco, a cui Benedetto XVI indirizza alcune tra le lettere più interessanti del libro. Leggere “Rinuncio” costringe a ripensare l’idea stessa di cristianesimo che ognuno di noi si è costruito, attraverso pagine che riproducono un’eco di voci dal movimento circolare, ricorsivo, magari a tratti poco diversificate per suonare polifoniche ma pur sempre in armonioso contrappunto nella sinfonia di questo prezioso diario spirituale.
Davide Brullo, che oltre a lavorare come giornalista e ad aver pubblicato poesie ha tradotto Il libro della Sapienza (2006), le Lamentazioni (2010), il libro dei Salmi (2011), il Cantico dei Cantici (2013) e le regole di Sant’Agostino e San Francesco, potrebbe apparire un autore ad esclusivo “uso e consumo” di un pubblico credente. Niente di più falso. Anzi, la sua penna cattura soprattutto l’ateo, l’agnostico, chi dalla fede cristiana si è allontanato perché insoddisfatto delle sue risposte consolatorie. Per Brullo il cristianesimo è lotta esistenziale, labirinto di enigmi, ricerca di un Padre, ragione di annichilimento; ma sopra ogni cosa, straordinaria fonte di ispirazione letteraria. “Non sono un buon credente, – dice Davide Brullo messo alle strette – e guai allo scrittore che professi una fede quando scrive”. Tuttavia, il romanzo è attraversato da una innegabile professione di fede: quella per la parola. E quando il linguaggio si fa strumento di domande universali, siamo tutti fratelli di un unico credo.
“Rinuncio” è in lizza per entrare nella cinquina dei selezionati alla 52/a edizione del Premio Campiello. Per il recensore, aldilà delle arcinote logiche dietro dei premi letterari, questo romanzo merita già di vincerlo. Se non altro perché la nostra letteratura contemporanea ha un disperato bisogno di interrogarsi su ciò che l’atterrisce. Per non rinunciare definitivamente ad essere arte.
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