Giovanni Cecchini (1846 – 1879)
– Era nato a Roma nel 1846, e 5 anni dopo, o poco più, la sua famiglia fuggiva dalla città papale, divenuta invivibile in quegli anni, per suo padre, fervente mazziniano.
Nell’ottobre 1867, ventunenne, non esiterà a rispondere alla chiamata di Garibaldi per andare volontario a Mentana. Si chiamava Giovanni Cecchini. Nel cimitero di Cattolica, in fondo a sinistra della chiesetta, alla ottava e terzultima colonna che sostiene il porticato, c’è tuttora affissa la vecchia lapide che così recita:
“A GIOVANNI CECCHINI – GENEROSO POPOLANO – OTTIMO PADRE E CITTADINO – VOLONTARIO DI GARIBALDI A MENTANA – CHE – IL 23 GIUGNO 1879 – ERA VITTIMA – DI FERRO OMICIDA – LA FAMIGLIA – E I FRATELLI DI FEDE – UN ANNO DOPO LA SUA MORTE – QUESTO SEPOLCRO – INSPIRI NEGLI ANIMI – CIVILE CONCORDIA – ABORRIMENTO DAI DELITTI DI SANGUE”.
Con due fotografie, una da giovane ed una nel pieno della maturità (anche se solo trentatreenne). Il generoso volontario non aveva esitato a lasciare la famiglia, la giovane moglie sposata l’anno prima, il lavoro, gli affetti e gli amici, appena saputo che Garibaldi, lasciata Caprera, aveva formato un esercito di volontari in quell’inizio d’autunno 1867 per correre a liberare Roma.
Cattolica 1861
Sei anni prima, il tratto di ferrovia Bologna-Rimini era stato inaugurato il 29 agosto 1861 e il 10 novembre, dello stesso anno, veniva inaugurata la Stazione Ferroviaria di Cattolica con la tratta ad un solo binario, da Rimini ad Ancona, con la partecipazione di tutte le autorità e nel treno, che transitava per l’inaugurazione, vi era anche il re Vittorio Emanuele II.
Giovanni e il padre Domenico, due anni prima dell’inaugurazione, avevano ascoltato Garibaldi, il 19 settembre 1859, che dal balcone della casa ove è ancora l’epigrafe a ricordo, sulla nuova strada, che poi prenderà il toponimo di “Via Mazzini”, aveva animato le coscienze per la liberazione del suolo italiano dalla tirannide.
Padre e figlio, dicevo, non andarono alla stazione con la moltitudine per vedere il re; avevano ancora nel cuore il rancore verso il Savoia che, esattamente un anno prima, il 26 ottobre 1860, era andato a fermare l’Eroe dei Due Mondi, nei pressi di Teano, nel timore che la sua ascesa arrivasse a Roma o potesse pretendere di proclamare una Repubblica.
In quel triste novembre 1867, Giovanni, dalle terre laziali era amaramente ritornato a casa, in una penosa ritirata, salvando la pelle da quella disastrosa battaglia contro i francesi che da Tolone erano scesi con i loro nuovissimi “chassepot” per difendere il potere tirannico nei territori pontifici romani del triste ed infido monarca Pio IX.
Campagna di Roma 1867
Era venuto a casa, Giovanni, con un attestato del colonnello garibaldino Eugenio Valzania che gli riconosceva la sua appartenenza e partecipazione alla “Campagna di Roma del 1867 quale volontario del 7° battaglione della terza colonna, per avere adempiuto con coraggio il proprio dovere nei combattimenti di Monte Rotondo e di Vigna Nuova”, ove purtroppo quei fucili chassepot, ultimo ritrovato della tecnica militare, avevano fatto strage dei valorosi garibaldini armati ancora dei vecchi fucili ad avancarica.
Per capire quella battaglia e comprendere la ragione di quegli eventi, occorre ritornare con la mente a quei tempi.
Giuseppe Mazzini ed i mazziniani e gli stessi uomini del Partito d’Azione continuavano a denunciare e quindi a lamentarsi, che non si potevano affrontare i tanti problemi che aveva davanti a sé il nuovo Stato, se prima non si risolvevano le due grandi questioni, di cui una era la liberazione di Roma dal potere temporale del Papa e l’altra era quella della instaurazione della Repubblica.
Quest’ultima idea era però già da tanti accantonata, se non abbandonata. Anche Francesco Crispi, che era stato grande sostenitore del repubblicanesimo e valido sostegno della campagna dei “Mille”, si era convinto che ora “la monarchia ci unisce e la repubblica ci dividerebbe”, sue parole nell’intervento alla Camera del 18 novembre 1864.
In verità non erano ingiustificate le idee che si erano fatte i sostenitori della necessità dell’avvento di una repubblica anziché della monarchia, visto quanto ne era scaturito con la guerra del 1866.
1866 – Terza guerra
E’ bene spendere qualche riga sulla infausta condotta dello Stato Maggiore del nuovo esercito del nascente Stato Italiano.
Nell’aspro conflitto austro-prussiano che covava prima del 1865, l’Italia era fortemente interessata, giacchè il Veneto ed il Trentino erano ancora sotto l’Austria.
Il ministro della Guerra Manfredo Fanti, che aveva riorganizzato il nuovo esercito italiano mediante la fusione di quello piemontese, con quello borbonico e quello garibaldino, aveva però riassunti in sé, tutti i peggiori difetti dell’uomo arrivato, geloso delle sue cariche, reazionario e particolarmente astioso verso Garibaldi ed i garibaldini nelle cui file vi erano invece, i migliori quadri militari.
Fanti si adoperò per metterli in secondo piano e allontanarli addirittura. L’esercito aveva potuto mettere in campo 220.000 uomini, 456 cannoni, 37.000 cavalli, in 20 divisioni, a cui aggiungere i garibaldini con 30.000 uomini.
Nel momento della nomina del Capo di Stato Maggiore, si accentuò il comportamento vergognoso e nocivo dei tre generali papabili: Della Marmora, Della Rocca e Cialdini. Reciproche ripicche e gelosie portarono alla peggiore soluzione possibile anche per l’intervento di Vittorio Emanuele II che pretese di avere capacità militari, che non aveva: Assunse il comando dell’armata del Mincio con 12 divisioni.
Nello scontro l’arciduca Alberto, comandante austriaco, con la metà degli uomini di cui invece disponeva l’esercito italiano, dimostrò di essere alquanto più capace dei nostri generali; umiliati con la sconfitta di Custoza.
Le uniche fulgide figure in quel contesto fu Garibaldi che, ripresa la marcia nel Trentino, percorse le valli tra la sponda lombarda del Garda e il fiume Chiese, e il generale Giacomo Medici che, al comando della 15^ divisione puntava su Trento nel percorso della Valsugana e si spostava vittoriosamente fino a Pergine. Mentre stava aprendosi la strada su Trento, fu fermato dagli alti comandi italiani per l’armistizio.
Garibaldi il 21 luglio di quel 1866 vinceva la battaglia di Bezzecca nel Trentino-Alto Adige, ma qualche giorno dopo non poteva far altro che rispondere “obbedisco” allo Stato Maggiore italiano che gli imponeva di non avanzare.
Questi risultati, val la pena di rimarcarlo, si raggiungono quando gli uomini, i soldati, i combattenti, sentono il particolare momento e sono motivati, non rispondono semplicemente a degli ordini, hanno alle spalle una formazione ultradecennale che li fa sentire partecipi, non sudditi.
E’ il caso del generale Giacomo Medici che, a 19 anni si arruola nei Cacciatori di Oporto, a 28 anni a Montevideo, nel 1845, si lega a Garibaldi.
Tre anni dopo, tornato in Italia, carico di orientamento repubblicano, fu un valoroso combattente nel 1849 alla Villa del Vascello alla difesa della Repubblica Romana, impiegando tutta la vita per la causa. Nel 1859 è con Garibaldi nei Cacciatori delle Alpi, nel 1860 dirige una seconda spedizione garibaldina in Sicilia. Nel 1866, grazie alle esperienze, alle doti accumulate, alla vita con gli altri collaboratori, manifesta capacità di comando. Il suo non è un comando ottuso, impostato alla obbedienza cieca, a volte anche senza senso, che spesso le rivalità degli alti militari, quali dignitari accademici, sanno anche sonoramente fallire.
Era anche per questa ragione che molti volontari partirono con la smania e la volontà di liberare Roma in quell’inizio di autunno del 1867, anche se altri erano del parere che era più urgente la sostituzione della Monarchia con la Repubblica.
Roma
A motivazione della campagna garibaldina per la liberazione di Roma dal papato, vi era la convinzione che a Roma sarebbe scoppiata una rivoluzione interna o comunque una serie di sommosse che invece non vi furono, né a Roma né nelle altre città laziali e si seppe poi del contegno passivo dei romani i quali, pur non essendo favorevoli al regime pontificio, tuttavia assunsero una forma di attendismo tanto sapevano che prima o poi o Garibaldi o l’esercito italiano sarebbero entrati in Roma.
In verità vi furono dei patrioti dentro Roma che diedero la loro vita e non restarono in attesa: i muratori Gaetano Tognetti e Giuseppe Monti attaccarono la caserma militare Serristori facendo brillare una mina contro gli zuavi pontifici vicino al Vaticano.
La loro condanna a morte aveva poi smosso le coscienze delle genti.
Il 22 ottobre pochi armati, guidati da Francesco Cucchi, assalirono il Campidoglio ma furono respinti.
Altri attacchi a Porta S. Paolo riuscirono a disarmare il corpo di guardia, poi però dovettero disperdersi.
I patrioti fratelli Enrico e Giovanni Cairoli tentarono di fare entrare le armi in Roma e nella notte del 23 ottobre caddero in battaglia a Villa Glori Enrico Cairoli, Enrico Mantovani e gli altri furono fatti prigionieri dai papalini e due giorni dopo a seguito di una strenua difesa caddero i patrioti: Francesco Arquati con sua moglie Giuditta Tavani e i loro tre figli e Cesare Bertorelli, Angelo Marinelli, i fratelli Paolo e Giuseppe Gioacchini e Augusto Domenicali.
Mentre si stavano spegnendo questi echi, Garibaldi marciava su Monte Rotondo con 8.000 uomini. Da Tolone erano partiti 9.000 soldati. Già giunti a Civitavecchia, erano perfettamente armati dei recentissimi chassepot, con i quali fu compiuta una strage dei garibaldini a Mentana, la maggior parte dovette ripiegare in disordine.
Che cosa erano in realtà questi nuovi fucili inventati l’anno prima dall’armaiuolo francese Antoine Chassepot? Calibro 11, al contrario delle armi da fuoco fino allora conosciute, era a retrocarica, non ad avancarica, e la propulsione del proiettile veniva accesa da un detonatore la cui esplosione era provocata dalla percussione di un organo mobile, che chiamarono dapprima “ago”, poi fu chiamato percussore.
Dopo la terribile strage dei garibaldini, con i corpi a terra nel campo di battaglia, il generale francese De Faille, con orgoglio e con cinismo, telegrafò a Parigi: “I Chassepot hanno fatto meraviglie”.
I 150 anni
Quando penso ai 150 anni della nostra Italia unita e al ricordo di questi giovani patrioti sui campi di battaglia, il mio pensiero mi riporta alle letture omeriche di quando ero ragazzino e la nostra insegnante di letteratura, durante il primo capitolo dell’Iliade, nell’intento di rincuorarci, ci illustrò la figura del filantropo e scrittore svizzero Henry Dunant.
Così infatti recitano le prime strofe, tradotte da Vincenzo Monti, di quel poema sulla guerra di Troia: “ – Cantami, o Diva, del Pelìde Achille – l’ira funesta che infiniti addusse – lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco – generose tralvolse alme d’eroi, – e di cani e d’augelli orrido pasto – lor salme abbandonò (così di Giove – l’alto consiglio s’adempìa), da quando – primamente disgiunse aspra contesa – il re de’ prodi Atrìde e il divo Achille….”.
Nel commento dell’insegnante apprendevamo che in tutta la storia dell’umanità, dopo le aspre battaglie, i feriti incapaci di fuggire, languivano a terra e morivano tra gli stenti, divorati spesso, ancora in vita, dagli animali e dai rapaci.
Ricordo il senso di smarrimento di noi ragazzi.
L’insegnante, che ci faveva anche storia, introdusse allora la figura di questo letterato ginevrino, che poi si naturalizzò francese, Henry Dunant, il fondatore della Croce Rossa che convinse le grandi potenze per la formulazione della Convenzione di Ginevra nel 1864.
Egli pensò ed illustrò con i suoi scritti i drammi durante e dopo la battaglia “Un souvenir de Solferino” (1862) e “L’esclavage chez les musulmans et aux Etas-Unis d’Amerique” (La schiavitù presso i musulmani e negli Stati Uniti d’America – 1863). Premio Nobel per la pace nel 1901, sta per compiersi il 150° anno dalla sua mirabile ispirazione.
Cecchini
Ritornando al nostro patriota cattolichino, Giovanni Cecchini, che è stato il bisnonno materno del carissimo amico ed esimio professor Alessandro Roveri, cadrà vittima il giorno 23 giugno 1879, di uno sconsiderato gesto di un focoso spirito anarchico (si direbbe oggi della ultrasinistra, come quelli che nel nostro tempo fecero la stessa cosa quando assassinarono Guido Rossa nel 1979, esattamente 100 anni dopo).
Io di proposito non voglio aggiungere niente altro di tutta la storia contenuta in questo volumetto che conosco perfettamente, però ho l’ambiziosa presunzione di creare in voi, carissimi lettori, un’ansiosa spinta ad impossessarvi di questo piccolo libro e leggerlo e sono certo che lo farete tutto d’un fiato.
Invito di cuore i miei ambitissimi lettori a recarsi in libreria ad acquistare il meraviglioso volumetto storico del Prof. Alessandro Roveri dal titolo “Un Garibaldino alla Cattolica”, Panozzo Editore, 2001, perché da questa amena lettura che ti coinvolge ed avvince, in specie l’animo di un cattolichino, si può trovare utile spunto per la conoscenza storica delle nostre recenti origini e del processo evolutivo di questi 150 anni, dei quali Cattolica è stata parte integrante di quella successione di eventi ed evoluzioni nel campo sociale, civile ed umano.