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Home Località Cattolica

Savio Bianchini, ricordi

Redazione di Redazione
11 Agosto 2011
in Cattolica
Tempo di lettura : 5 minuti necessari
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La Siolta (il brano che pubblichiamo è tratto dal racconto La Famiglia) di Savio Bianchini. Siolta sta per sciogliere la terra, cioè arare. Savio Bianchini ha 86 anni, cattolichino da quattro generazioni, come tiene a sottolineare. Da 15 a 60 anni è stato vivaista, giardiniere e poi cantiniere dei Verni, quelli della Rocca malatestiana. Poi ha continuato con la cantina sociale. Infine fino a pochi anni fa ha continuato in proprio il mestiere di venditore di vini. Da qualche anno ha iniziato a scrivere racconti della sua vita, dove ne esce l’affresco di una Cattolica ormai passata con tutti i suoi personaggi.

AMARCORD

Ora mi ricordo quella volta quando avevo undici anni, ero partito con due vacche, dovevo andar fino al porto a fare la siolta da quel podere in via Larga, era buio e col babbo son partito per la strada che portava alla stazione. Era un lavoro che doveva stare nascosto dal padrone era un lavoro da farsi tutti in fretta, le vacche erano quattro, io ne avevo due quelle davanti che si usava dir mandar la vetta. Mentre quassù dove vivevo con i miei si faceva il cambio. Molte volte ne avevamo sei. Non era un lavoro pesante così possidenti e contadini si usava farlo fare alle donne, agli anziani e ai bambini. Il cambio veniva fatto con piccoli possidenti che per arar la terra non avevan forze sufficienti.
Questo era Cesare Cerri, ma anche con piccoli contadini e noi vicini come Giulianelli adesso che ci penso ho visto comandar due vacche dal babbo di Vincenzo.
Ma il podere sul Ventena era troppo piccolo e così che per evitare guai i Giulianelli lasciarono la terra e fecero i fornai. Ancor oggi là dove cuoce il pane Celli, quel forno lo scaldava Lino Giulianelli. Quella famiglia a noi vicino la provenienza era di San Marino.
Fra i tanti suo fratello fornaio non era, suonava la fisarmonica, le sue canzoni “Ti saluto vado in Abissinia” e “Faccetta Nera”. A volte suonare a lui vicino c’era Giuseppe Pritelli che metteva a stagno il suo clarino. Mario l’ho visto tante volte a quel capanno con più gabbie, due reti fermo lì per tutto il giorno, era appassionato (la sturnera) per la caccia dello storno.
Anche sua sorella Maria ha avuto il suo bel da fare, perché mi han mosso i primi passi, è stata quella donna che mi insegnò a ballare.
Ormai su quel podere dove non c’erano più i Caldari era arrivato Varin (Zamagna), Varin e Giuseppina davano ospitalità e cortesia, mi trovavo a mio agio tanto da farmi sentire a casa mia. Per tutti gli ospiti quel contadino a ottobre preparava quella botte con il mezzo vino (aquadécia o pciol) e ci diceva, ed era vero “Io il vino lo bevo solo intero”.
La famiglia Vannoni oggi quella casa è di Ciaroni. Ma quel podere era di Palota (Luigi Clementoni).
E anche lì in quella cucina tante volte si balla, e c’era una porta che dava in quella stalla, c’erano tante salsicce appese a quel camino, la fisarmonica era suonata da un esile bambino che l’andavano a prendere in tutta fretta sulla canna della bicicletta che dopo pochi anni si è fatto un nome suonava all’Esedra con Gualdi e si chiamava Paolo Zavallone.
Era successo qualcosa che non sembrava vero: mio nonno Erminio aveva comprato un appezzamento di terreno tutto intero che da via Viole andava giù fino allo Squero.
Dopo poco tempo tre delle sue figlie: Santina, Aurelia e Guerrina, avevano costruito un proprio appartamento, (per me Santina è stata una manna, tante volte ha fatto le veci di mia mamma).
A quei tempi in Africa c’era la guerra ed io con mio babbo andavamo ad arare quella terra. Era un terreno sabbioso, leggero, si rovesciava come niente. Per noi due e per quelle quattro vacche era perfino divertente.
Mentre quassù dove oggi c’è via Del Giglio la terra era forte, l’aratro non stava fermo, era tutto uno scompiglio; allora quelle sei vacche dovevo richiamare e con il ramo in mano esortare, ma (la bionda) dentro il solco girava quella testa e mi guardava tanto da farmi vergognare!
Pareva mi volesse dire perché mi vuoi menare? Non vedi? Più di così non posso dare! E quando tu mi porti a casa, in quella stalla ho mio figlio da allattare e il latte che tu hai bevuto stamattina era mio! E la tua mamma ogni tanto me lo vien a rubare.
Quella povera bestia con quel guardare (tanto protestato) con quello sguardo mi aveva punto come l’ortica, avevo undici anni ma già sapevo cos’era la fatica. Ed io rimanevo fermo lì immobile, con quel braccio teso e quel ramo alzato.
Torno a quel terreno, al porto dove i marinai, con quell’andare avanti e indietro, avevano aperto tanti sentieri, ma anche per loro, quando perdevano le reti, erano giorni neri.
Così mi raccontavano i fratelli Ballestieri, uno di loro per non avere doglie, aveva rinunciato a prendere moglie, mentre gli altri due dopo aver ormeggiata quella piccola barca, la “Titina”, andavamo a casa, Bigin aveva una Leonardi, l’Angelina, Eugenio una Montanari, l’Esterina, questa aveva la seconda figlia. Quando aravamo quella terra aveva tre anni, con lei, Marisa, più tardi avrei formato la famiglia.
Il suo regalo, quella catena che porto ancora al collo, dove a quella medaglia c’è quell’iscrizione che raccomanda Dio per la mia protezione. Che poi anche per i marinai veniva il bel momento, sto parlando di quel circolo a Gabicce, all’angolo di via Trento. Anche loro come tutti gli altri, muratore, operaio o contadino, quella famiglia girava molto intorno al bicchiere di vino.
Su quella strada più volte son passato, perché in quei paraggi son stato fidanzato, poi alla Pensione Perla nel 1958, gestita da Nello e la Bertina che mia moglie era la cugina, ci siamo sposati andando a piedi fino ai frati.
Poco distante c’era il Bayon gestito da Romano Bartolini che insieme siamo stati bambini, anche loro di fratelli erano tanti, tanti i sacrifici dei genitori Domenico e Caterina per tirare avanti. Mi ricordo quand’ero sul draghetto, già il cuore mi batteva dentro il petto, pensando ai proverbi di una volta, io romagnolo andavo nelle Marche a bussare a quella porta con pochi riguardi perché se avrò dei figli loro saran bastardi.
Sui miei passi torno di tanto in tanto, arrivo a quel locale chiamato Portosanto, però mi fermo prima, in via Verdi a trovare mia zia, la Guerrina. Cresciuti insieme in quella grande cucina, d’inverno ci siamo scaldati in quella stalla sdraiati con la paglia nella balla.
A cento metri mia cognata Ballestrieri Cesarina con i nipoti Luisa e Fabrizio che la moglie non prende ma mantiene quel bel vizio.
Su quella via ho avuto ed ho ancora dei cugini, sto parlando dei Boschetti e Vanzolini che ambedue stan lavorando e han lavorato in quelle due aziende di cui ho già parlato. Dopo più di settant’anni da quando c’era quella guerra, sono senza vacche e torni a guardare quella terra. Vedo un grande ciliegio e quella strada tanto stretta, che per andare al porto tra i confini di Marche e Romagna, dove sessant’anni fa per me era la cuccagna.
Adesso son lassù su quell’altare, una cosa molto mi consola, quelle due sponde si son tanto amalgamate che con i miei occhi ormai ne vedo una sola. Mi guardo attorno, mi fermo a meditare.
Adesso guardo quell’acqua che cammina e viene in mente adesso c’è anche quella del Fosso Vivare, un tempo faceva bello il mio podere, ma ormai da tanti mesi, quell’acqua non passa più sotto il Cervesi. Ma a quelle vacche non sono col pensiero, non mi mancan né vasche, damigiane, botti: mi chiedo dove sono finiti quei locali, mi mancan le mie sere e le notti.
Adesso guardo là verso lo squero, son da solo, ho voglia di parlare, poi mi giro verso il sole, guardo il mare; con i piedi fermi lì su quella griglia, sto pensando a più di una famiglia.
Quest al dégh in dialet: “Um per più bèl Remig, Zaròl, Tuzlén, Tambur, Pompa, Baganèl”.

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