Misano Adriatico. Moda: Lorenzo Serafini, una pagina sul prestigioso quotidiano “Corriere della sera” dell’8 novembre.
Titolo: “Lorenzo Serafini, l’ultimo romantico. Il designer di Alberta Ferretti si racconta: «Il futuro? Fare meglio con meno».
Ecco l’intervista completa sul misanese.
Lorenzo Serafini è da poco più di un anno alla direzione creativa di Alberta Ferretti. Chiunque lo incontri finisce con il pensare (e scrivere) di avere davanti l’ultimo dei romantici. Oggi più che mai ascoltandolo parlare di sentimenti, fiducia e futuro, di fronte a un mercato così difficile. È della scorsa settimana la notizia della chiusura della storica boutique Ferretti in via Condotti a Roma in linea con il piano di ristrutturazione avviato.
«La creatività vive inevitabilmente dentro un contesto di apprensione —premette —. I budget si restringono, i tempi si accorciano, e ogni ora in più “costa”. Non puoi più permetterti di dedicare mesi a un capo. Eppure io credo che la risposta sia sempre quella: lavorare con ancora più creatività. E avere fiducia. Non possiamo essere pessimisti».
Dove «aggrapparsi»?
Dove «aggrapparsi»?
«Le idee sono preziose. A volte arrivano di getto, spontanee, altre hanno bisogno di tempo, di gestazione. Ma poi bisogna incanalarle nella realtà: noi non facciamo alta moda, facciamo abiti pensati per una donna reale, che possa comprarli, viverli. Ma il tempo è anche la cosa più difficile da gestire: scorre più veloce di prima. Tutto è cadenzato: vivi in una corsa perenne. E quando provi a fermarti, ti senti in colpa. Eppure il tempo per osservare, riflettere, lasciarsi ispirare è fondamentale».
Oggi però sembra esserci anche una certa paura tra i designer e la creatività pare sempre «trattenuta».
«Sì, la sento. È inconscia, ma reale. Sbagliare una collezione oggi è pericolosissimo: può compromettere molto. Anche se facciamo finta che sia solo “il solito processo creativo”, la verità è che la posta in gioco è alta».
Poi c’è la responsabilità di portare avanti il nome di qualcun altro. Quanto pesa?
«All’inizio molto. Volevo compiacere Alberta, renderla orgogliosa, mantenere la continuità con il suo linguaggio. Immagino quanto possa essere difficile per un fondatore vedere il proprio nome evolvere in qualcosa di diverso. Ma poi, con il tempo, ho sentito il progetto mio, in modo organico. Aggiungo che Alberta è una delle persone più intelligenti e generose che conosca. Dal primo giorno non si è mai intromessa. Mi ha detto: “Non voglio vedere nulla, voglio che tu sia libero.” È un gesto di grande forza».
Un grande rispetto.
«È nel mio carattere. Non sono mai stato disruptive per principio. Ho sempre cercato di dialogare con l’identità di chi mi accoglieva. L’heritage è guida, non limite».
«Rispetto» è anche il termine che usa sempre quando racconta la sua moda.
«Il mio lavoro nasce dal rispetto per la donna a cui mi rivolgo. Non posso “tagliare” sui valori o sulla dedizione verso chi sceglie un mio abito. Il mio amore per la moda è nato guardando i grandi: Ferré, Valentino, Versace, Armani. Il loro intento era rendere la donna più bella. È sempre stato anche il mio. Credo che la forza stia nell’esprimere la propria sensibilità, non nel nasconderla. Gentilezza e grazia sono forme di coraggio».
Franca Sozzani diceva che «il desiderio è un piccolo sogno». Vale ancora?
«Assolutamente. Ma oggi è più difficile generarlo. L’overproduction ha ucciso il desiderio: troppe collezioni, troppe cose. Quando tutto è tanto, non hai più fame. E poi l’aumento dei prezzi ha complicato tutto. Pensare che il savoir faire italiano possa essere replicato nel mass market è un errore e un orrore. Io credo che l’unica strada sia fare meglio, con meno».
In effetti oggi alcuni brand, come Saint Laurent, propongono poche silhouette, pochi tessuti…
«Esatto. È un ritorno all’essenza: restringere, invece di ampliare. Creare un’identità riconoscibile con meno elementi. È una lezione di stile e anche di desiderio».
Eccolo «l’ultimo dei romantici». Le piace questa definizione?
«Molto. Mi rappresenta. Io metto sempre un piano sentimentale in tutto: nei rapporti, negli oggetti, nei luoghi. Ho un legame emotivo fortissimo con ciò che mi circonda. E nella natura trovo sempre le mie risposte. Il mio rifugio è una casa in collina, a Misano Monte. Quando sono lì, mi rigenero: capisci che molte delle sovrastrutture che creiamo non servono davvero. Poi ci sono i viaggi che mi fanno sentire libero».
Emanuela Fanelli in Alberta Ferretti di Lorenzo Serafini
Veste da Emanuela Fanelli a Beyoncé: com’è possibile?
«Mi piace l’idea che una mia collezione possa parlare tanto a una trentenne quanto a una sessantenne. Quando invece lavoro con una personalità precisa, come una star, cerco il dialogo: non voglio sovrastarla, ma valorizzarla. È una sfida stimolante. Oggi la rigidità non serve».
La soddisfazione e la delusione più grandi?
«Vedere una donna che indossa un mio abito. Mi capita per caso, al ristorante o in strada, e ogni volta è un’emozione fortissima. Ma nessuna grande delusione. Ho la fortuna di avere amici veri. Pochi, ma autentici. E questo mi fa sentire fortunato».
Il primo ricordo di moda?
«Una sfilata di Versace in televisione, fine anni ’80, in una puntata di Serata d’onore con Pippo Baudo. Avrò avuto 8 anni: rimasi folgorato. Ho capito subito che volevo essere lì».











