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Gabicce Mare, 1929/’30. La motobarca “Nino Bixio” e sullo sfondo “L’invincibile Togo”, costruito a Senigallia nel 1905, entrambe appartenute ai fratelli Michelini (“Murot”) di Gabicce. (Archivio fotografico Centro Culturale Polivalente di Cattolica)
La storia del cantiere Rondolini si esprime anche nel ricordo di una barca da lui costruita, che è rimasta operante fino ai nostri giorni sotto il nome di “Saviolina” già “Nino Bixio”, in memoria del suo capitano l’albergatore riccionese Severo Savioli. (La prima parte del racconto sul Nino Bixio è stata pubblicata il mese scorso).
Nei mesi invernali veniva posta in disarmo e ormeggiata lungo il torrente Tavollo. Al momento di riprendere il mare per la pesca in primavera, tutte le barche venivano rimesse a nuovo e, tra queste anche il “lancione” dei Michelini; capibarca, calafati, marinai e mozzi si mettevano al lavoro, raschiando col vetro alberi e pennoni, tirando “alla banda” per pulire la carena, scrostando, calafatando, riverniciando.
Tra il 1934 e il 1936, venne cambiato il motore, imbarcando un “Deutz”, costruito in Germania. Furono ridotti gli alberi e le vele; fu accorciato il timone, che prima era molto più lungo, essendo un “timone da vela”. Iniziò così a restare in armamento anche durante d’inverno con la pesca a strascico. Nel gennaio del 1931 (o del 1932) si ricorda una notte di pesca eccezionale; furono presi 54 rombi! E benché all’epoca di pesce ce ne fosse molto di più di oggi, fu sempre una grossa cattura.
Nel 1942 il “Nino Bixio” fu venduto all’architetto di Roma Giovanni Battista Perucchetti, il quale la lasciò in gestione ad Alfredo Del Bianco di Riccione. La barca, dunque, aveva cambiato porto e da quel momento restò sempre a Riccione. Col ricavato della vendita, e senza aggiungere del nuovo, i fratelli Michelini di Gabicce riuscirono a commissionare un’altra barca più grande, il “Nino Bixio II”. Dopo il varo lo scafo fu ormeggiato lungo il torrente Tavollo, senza nessun allestimento affinché non fosse requisito dai tedeschi. Al termine della guerra, nel 1946 venne ultimato l’allestimento e montato un motore “Ansaldo” da 80 HP; l’anno seguente il “Nino Bixio II” prese il mare per l’esercizio della pesca a strascico.
Definitivamente trasferito a Riccione, il “Nino Bixio” continuò a svolgere attività di pesca dal 1942 al 1958. In estate era utilizzato per la pesca delle sardine con le reti da posta (reti da sarda), mentre da fine settembre iniziava la pesca con le sfogliare. Più raramente veniva usata la tartana, soprattutto dopo che le mareggiate avevano mosso il fondo facendo venir fuori i pesci. In alcune occasioni anche le reti del “Nino Bixio” furono vittime dei delfini, che allora “erano come i branchi dei cefali” e arrivavano fino ai cogolli, a pochi metri da riva, o entravano addirittura nel porto; erano accaniti con i pescatori: laceravano il sacco della rete e si mangiavano il pesce.
La barca aveva delle vele più grandi rispetto a quelle degli altri lancioni, perché servivano ancora; era nata a vela e montava un motore di soli 25 HP. La maggior parte delle barche, ormai tutte motorizzate in quegli anni, montavano motori da 50 o 70 HP e avevano ormai poco bisogno delle vele, che erano state ridotte.
Nel settembre del 1944, quando si ebbe notizia che il fronte era arrivato al Tavollo e si sarebbe presto spostato verso Riccione, quasi tutte le barche presenti in canale vennero autoaffondate, affinché non fossero requisite. Il “Nino Bixio” restò sott’acqua per una decina di giorni, con la presa a mare aperta.
Diverse volte affrontò delle burrasche fortissime, come nel febbraio del 1946, quando arrivò in porto a Cattolica con la sola vela di trinchetto tutta terzarolata e il motore al massimo.
Ebbe a che fare anche con le mine che erano rimaste in mare subito dopo la guerra. La prima volta un marinaio della barca, dopo averla legata con una cimetta, fece esplodere la mina a non più di 100 metri di distanza. L’onda d’urto dell’esplosione dissestò completamente il “Nino Bixio”, che iniziò subito a fare acqua. Il timone venne legato e tutto l’equipaggio si impegnò a sgottare l’acqua dalla stiva con dei bidoni dell’olio da 20 litri; la barca arrivò in porto a Riccione quasi affondata, con l’acqua che copriva il motore.
La seconda volta accadde al largo di Rimini nel luglio o nell’agosto del 1947, quando due mine restarono prese nelle sfogliare. Per la paura di perdere le reti e per quella di provocare una nuova esplosione, gli uomini a bordo rimasero in mare tutta la notte, fermi. Un’altra barca uscì dal porto per cercarli e li trovò in quella condizione; riuscirono a recuperare quasi tutte le cime ma perdettero le reti. In compenso, questa volta le mine vennero fatte brillare dagli artificieri della capitaneria di porto di Rimini. (Fine)
a cura di Enzo Gaudenzi e Sebastiano Mascilongo