“E’ cino, la gran bòta, la s-ciuptèda” è il titolo della nuova raccolta in versi in dialetto sammaurese a firma dell’ex direttore della Cineteca di Rimini Gianfranco Miro Gori (foto lapiazzarimini.it). La quarta ad essere precisi e dopo una pausa di sei anni. Gori ritorna alla poesia e lo fa con un libro denso di significato ed emotivamente coinvolgente, in cui vengono trattati tre temi a lui particolarmente cari. “Non voglio dimostrare nulla, ovviamente – premette – sono semplicemente argomenti su cui rifletto e ho riflettuto per buona parte della vita. Volevo mettere a confronto il dialetto, lingua delle madri e dei padri, con il medium più importante del Ventesimo secolo, il cinema (e’ cino), che è stata la mia professione; con la principale delle narrazioni, quella dell’origine del mondo (la gran bòta), che ho incrociato sin dai primi studi di filosofia; con uno degli omicidi impuniti forse più famosi delle patrie lettere, quello del padre di Pascoli (la s-ciuptèda), di cui ho udito parlare sin da bambino, occupandomene poi in età adulta”.
La competenza di Gianfranco Miro Gori per quanto riguarda il cinema è fuori discussione. Ideatore e direttore della cineteca del comune di Rimini, in questa raccolta, ‘e’cino’ non viene trattato sotto un aspetto tecnico, ma sotto una visione strettamente famigliare, particolarmente legata alla nonna, alla mamma e, naturalmente, a lui stesso da bambino, ai ricordi legati alla meraviglia. Cerca di mostrare quanto il cinema e il dialetto siano particolarmente legati tra loro definendoli “due morenti che continuano a vivere ‘ruzzolando’ e che resistono nonostante la tv e internet”. Scrive infatti “…E’ cino l è mort, e’ dialèt l è mort. O i s aréugla tut déu piò o mènch te bacaiadéz dla telévisiòun, te ciacaradéz ad internet” (…il cinema è morto, il dialetto è morto. O ruzzolano entrambi più o meno nel vociare della televisione, nel chiacchiericcio di internet). E poi ‘la gran bòta’, il Big Bang, il nulla che precede il tutto. Un lungo monologo che vede il passaggio di diverse fasi: l’acqua, il fuoco, la posizione eretta dell’uomo, l’uso del bastone… “…Tot inquél l’è vnu fura s’una gran bòta. U n gn’era gnént. A n simi invèl…” (…Tutto quanto è scaturito con un gran botto. Non c’era nulla. Non eravamo da nessuna parte…).
La terza e ultima parte è costituita da due monologhi che ripercorrono, con la voce dell’assassinato e dell’assassino, la morte di Ruggero Pascoli, quasi fosse un dialogo tra i due, un dialogo mai avvenuto e su cui si è tanto discusso. Entrambi iniziano allo stesso modo “E i m à tirat: propri in te mèz dla fròunta” (E mi hanno tirato: proprio nel mezzo della fronte) racconta Ruggero, il ‘morto ammazzato’, come lo descrive Gori. “E a i ò tirat: propri te mèz dla fròunta” (E gli ho tirato: proprio nel mezzo della fronte), ribatte l’assassino. Come sottolinea Ennio Grassi, intellettuale e critico letterario riminese che ne ha curato la prefazione, i due ora “possono raccontare la verità e la raccontano senza reticenza alcuna”. “E’ cino, la gran bòta, la s-ciuptèda” edito da FaraEditore Rimini (84pp – euro 11,00).
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