di ALBERTO BIONDI
Siamo entrati nella tanto chiacchierata mostra “Da Cimabue a Moranti. Felsina Pittrice” organizzata dal noto critico ferrarese a Palazzo Fava, Bologna. Parliamo di arte (evitando il chiacchiericcio). Lo si può amare e odiare per svariati motivi, tutti altrettanto validi, ma quando Vittorio Sgarbi parla e si occupa di arte bisogna lasciarlo stare. Sia come critico che in veste di curatore: c’è il suo zampino, infatti, nella mostra inaugurata nel giorno di San Valentino a Palazzo Fava, Bologna, a pochi metri da Piazza Maggiore. Un percorso lungo sette secoli che dal Duecento attraversa la storia della pittura emiliana (dunque italiana, per estensione) fino alle avanguardie del Novecento. Parmigianino, Guido Reni, i cugini Carracci, Guercino, Raffaello… fino ad arrivare a Lucio Fontana e Arturo Martini.
Ovviamente come ogni cosa toccata da Sgarbi, il re Mida dei tafferugli mediatici, l’esposizione non ha mancato di sollevare il consueto polverone: 210 luminari hanno firmato una petizione contro la mostra tacciandola di non possedere alcun disegno storico o criterio scientifico. Pronta la risposta di Sgarbi: “I firmatari sono solo scimmie. […]Chi critica questa mostra dicendo che abbiamo depauperato la Pinacoteca nazionale di Bologna e gli altri musei della città, deve tornare a studiare, deve tornare all’asilo. […] Bologna è una città di pigri e di morti ecc. ecc.”. Lasciando per un momento da parte le stilettate o le posizioni ideologiche, vorremmo parlare delle 180 incredibili opere che abbiamo avuto modo di ammirare direttamente.
Innanzitutto raggiungere Palazzo Fava è semplicissimo: dalla stazione si imbocca la rettilinea via dell’Indipendenza, la si percorre quasi per intero e infine si svolta a destra su via Manzoni, poco prima di scorgere il Nettuno. Una volta entrati nel cinquecentesco palazzo senatorio, che da solo merita una visita, la mostra si sviluppa su tre piani e una maestosa scalinata ci accompagna alle sale dei quadri. Il primo consiglio è di guardare all’insù: le pareti sono decorate con gli affreschi mitologici di Ludovico, Agostino e Annibale Carracci, che raffigurano le vicende di Giasone, le storie dell’Eneide e le avventure di Europa. Il percorso tracciato da Sgarbi nel solco dell’opera critica di Roberto Longhi, a cui la mostra rende omaggio, rivela le pennellate austere di Cimabue, gli sguardi espressivi di Guido Reni, le sfumature vibranti del Guercino.
“Da Cimabue a Morandi” resterà aperta al pubblico fino al 17 maggio 2015, è possibile prenotare visite guidate. Info: palazzofava@genusbononiae.it (foto lapiazzarimini.it)
Nel cuore dell’esposizione è collocata l’Estasi di Santa Cecilia (246×149 cm) del divino Raffaello, un dipinto straordinario su cui è doveroso soffermarsi: databile intorno al 1515 e conservata fino ad oggi nella Pinacoteca Nazionale di Bologna, questa Estasi dalle dimensioni imponenti raffigura la protettrice della musica circondata da San Paolo, San Giovanni Evangelista, Sant’Agostino e Maria Maddalena, tutti riconoscibili dai simboli che recano. Ai piedi della Santa sono ammonticchiati alcuni strumenti musicali vecchi o rotti (una viola da gamba, un triangolo, due flauti, dei cembali, questi ultimi legati al culto di Bacco e perciò simbolo di una musica “terrena”, “carnale”). In cielo un coro angelico, a cui Cecilia rivolge lo sguardo mentre con le mani regge un organetto. Racconta il Vasari che Laonde di Francia, vedendo l’opera, ne rimase “mezzo morto per il terrore e la bellezza della pittura” e che dopo pochi giorni morì davvero, fuori di sé, credendo che l’arte avesse toccato la sua vetta di perfezione. Fiancheggia l’Estasi un altro dipinto meraviglioso, la “Minerva in atto di abbigliarsi” della pittrice Lavinia Fontana (1612) che raffigura la dea nella sua sensualità muscolare e virginale.
Passeggiando per la mostra si scoprono anche piccoli tesori come la “Madonna del bucato” (1620) attribuita a Massari e concessa dagli Uffizi di Firenze: la Sacra Famiglia viene dipinta mentre Maria, Gesù e persino Giuseppe lavano e stendono dei lenzuoli in un paesaggio silvestre; o ancora la “Madonna col Bambino e i Santi Margherita, Benedetto, Cecilia e Giovannino” di Agostino Carracci, in cui Maria allatta teneramente (e forse all’epoca anche sconciamente) il Figlio, mentre un amorino satiresco addita la scena ammiccando verso lo spettatore.
Al secondo piano occorre soffermarsi sulle opere del santarcangiolese Guido Cagnacci (1661-1663), un romagnolo ingiustamente dimenticato dai suoi posteri, tra cui spicca una disturbante Allegoria del Tempo ricca di simbologia. Impossibile non commuoversi di fronte alla perfezione del “Pianto di San Pietro” ad opera del Guercino (1650) mentre i quadri più moderni aiutano a spezzare la vista di soggetti religiosi o mitologici. Al terzo ed ultimo piano della mostra le nature morte di Giorgio Morandi (con le composizioni di bottiglie vasi, ciotole) sintetizzano al meglio la ricerca artistica del Novecento. Quando il visitatore esce da Palazzo Fava, ha come l’impressione di aver percorso un lunghissimo viaggio attraverso il gusto, l’estetica e lo stile della migliore arte emiliana, alla quale hanno contribuito gli artisti più acclamati del mondo. Imperdibile.