Tratto da lavoce.info
DI MICHELE RAITANO, Professore ordinario di politica economica alla Sapienza Università di Roma
Non c’è solo il problema dei pensionati poveri di oggi. Le carriere intermittenti si diffondono, soprattutto fra i più giovani. Ciò prefigura pensionati futuri con assegni molto bassi. Serviranno risposte di natura previdenziale e non assistenziale.
I pensionati nel Rapporto Inps
L’ultima edizione del Rapporto Annuale dell’Inps include uno studio, di particolare interesse per la ricchezza dei dati amministrativi a disposizione dell’Istituto, sui pensionati poveri. Riguarda sia gli attuali pensionati sia i lavoratori ancora attivi in relazione al rischio che una carriera sfavorevole li trasformi, appunto, in pensionati poveri.
Per i già pensionati, il primo risultato – conforme a quello raggiunto da altri studi – è che, anche accorpando le prestazioni multiple ricevute da uno stesso soggetto (per vecchiaia, invalidità, reversibilità e gli assegni sociali), la quota di “poveri” è elevata ed è altresì ampia l’eterogeneità tra i redditi da pensione. Nel 2021, escludendo dall’analisi chi ha lasciato l’attività prima dei 50 anni di età, la quota di pensionati con reddito pensionistico lordo inferiore a 10 mila euro annui era pari al 20 per cento e la quota è alta (7,3 per cento) anche se si considerano solo gli ex dipendenti privati percettori di pensioni da lavoro che si sono ritirati dal 2017 in poi.
Il Rapporto mostra anche che la disuguaglianza dei redditi da pensione, non diversamente da quelli da lavoro, è in crescita: l’indice di Gini dei redditi annui lordi da pensione è aumentato costantemente dal 1995 (circa 0,30) al 2021 (circa 0,35). Al netto dei meccanismi redistributivi impliciti nella formula di calcolo della pensione (soprattutto in quella retributiva, per esempio rispetto al vantaggio derivante dall’avere aumenti salariali a fine carriera e ai diversi parametri applicati nelle diverse gestioni), la crescita della diseguaglianza dei redditi da pensione rispecchia, con ritardo, le tendenze in atto nel mercato del lavoro, per le quali vi sono evidenze non soltanto di disparità crescenti, ma anche di una bassa mobilità che rende persistenti i divari reddituali.
Le prestazioni, dunque, sono di importo molto limitato anche per chi riceve una pensione interamente retributiva o mista. Il Rapporto Inps non tiene conto dell’anzianità al pensionamento, ma è lecito supporre che nel retributivo – poiché il riferimento ai salari è limitato alla fase finale della carriera – le pensioni basse siano principalmente dovute a una modesta anzianità lavorativa. Invece, con il contributivo – applicato totalmente o pro quota – possono aversi pensioni basse anche con vite lavorative non brevi, ma caratterizzate a lungo da eventi sfavorevoli (che generalmente si cumulano) – quali interruzioni dell’attività (non compensate da contribuzione figurativa), contratti ad aliquota ridotta e retribuzioni modeste, su cui incidono, negativamente, i bassi salari orari e i lavori part-time, sempre più diffusi nel mercato del lavoro italiano.
Le carriere frammentate
Per quanto riguarda i lavoratori ancora attivi, la frammentarietà delle loro carriere e la loro accumulazione (figurativa) del montante contributivo, il Rapporto presenta un’interessante analisi preliminare che c’è da augurarsi preluda a un sistematico monitoraggio periodico. L’analisi si riferisce ai nati fra il 1965 e il 1980 (escludendo, però, per comparabilità fra coorti, chi è entrato in attività dopo i 25 anni) e ai loro primi 15 anni di carriera di cui si rilevano due fondamentali indicatori di successo: gli anni effettivi di contribuzione e il montante accumulato in base alle regole del contributivo, entrambi sintetizzati dai loro valori medi.
Il quadro che emerge è conforme a quello indicato da altri studi simili ed è preoccupante, dato che, in media, l’anzianità contributiva è ben inferiore a 15 anni e la frequenza dei “buchi” è più alta nelle generazioni più giovani. In media, la coorte 1965 versava contributi per circa 10 anni e 4 mesi, quella 1980 per 9 anni e 11 mesi. Quindi, in media, una vita attiva di 45 anni darebbe luogo a meno di 30 anni di versamenti effettivi. Ancora, chi è nato nel 1980 ha accumulato nei 15 anni un montante annuo medio di 1.600 euro inferiore rispetto a chi è nato nel 1965 (6.600 euro contro 8.200). Risulta così confermato che è elevato il rischio di pensioni basse per chi – in gran parte, o interamente, soggetto alle regole del contributivo – avesse carriere svantaggiose, come sono in misura crescente quelle delle generazioni più giovani.
La pensione contributiva di garanzia
È importante che l’Inps abbia richiamato l’attenzione sulle future pensioni mentre, come si è letto in questi giorni, il dibattito è dominato dal tema dei bassi importi di quelle in essere. Tuttavia, per arricchire il quadro interpretativo e fornire elementi utili a chi governa l’analisi dovrebbe essere estesa lungo tre dimensioni.
In primo luogo, sarebbe preferibile distinguere gli individui per coorte di ingresso nel mercato del lavoro anziché per anno di nascita, in modo da valutare l’influenza delle diverse regole di calcolo previdenziale e depurare l’analisi da possibili cambiamenti strutturali nell’età di ingresso in attività. In secondo luogo, sarebbe utile conoscere non soltanto il valore assoluto dei montanti, ma anche quello relativo (ad esempio, rispetto al montante accumulato da un individuo con retribuzione mediana) sia per fornire un ordine di grandezza più chiaro sia, soprattutto, per distinguere l’impatto della riduzione del tasso di crescita del Pil (il rendimento del contributivo è infatti ancorato alla variazione del Pil nominale) da quello del peggioramento delle storie lavorative individuali. Infine, ma non meno importante, sarebbe bene andare oltre le medie e fornire dati sulla quota di individui esposti a un certo evento rischioso.
Analisi condotte su altri dati di fonte amministrativa secondo questi criteri mostrano un quadro per certi versi ancora più preoccupante. Solo il 43,1 per cento di coloro che sono entrati in attività tra il 1996 e il 1998 a venti anni di distanza ha un’anzianità contributiva di almeno 16 anni e – dato molto preoccupante – il 51,1 per cento, sempre dopo venti anni, ha accumulato meno del 60 per cento di quanto avrebbe fatto una persona sempre dipendente con retribuzione lorda annua mediana (circa 19.500 euro). Chi guadagnasse tutta la vita, come dipendente, il 60 per cento della mediana (un salario simile a quello di molti dipendenti part time) otterrebbe a 69 anni, dopo 45 di lavoro, una pensione di importo in linea con la soglia di povertà relativa per un single calcolata da Eurostat: la quota di lavoratori che – se la carriera futura non dovesse migliorare sensibilmente – rischiano al pensionamento di ricevere una prestazione di importo molto limitato appare dunque drammaticamente elevata.
È perciò urgente introdurre strumenti che tutelino chi, per instabilità occupazionale o retribuzioni limitate, rischia di trovarsi da anziano in condizioni di disagio economico, pur essendo stato a lungo sul mercato del lavoro.
Il primo, ovvio, campo di azione per contrastare le forme più inaccettabili di diseguaglianza nelle pensioni riguarda il mercato del lavoro, mediante un’efficace azione “pre-distributiva”. A questo proposito, il Rapporto Inps simula cosa sarebbe accaduto ai montanti se fosse stato in vigore un salario minimo orario di 9 euro lordi: si sarebbe verificata una crescita non irrilevante di quelli medi, che favorirebbe soprattutto le generazioni più giovani e le donne. L’intervento sul salario minimo – anche qualora fosse reso retrospettivo per il calcolo del montante –non offrirebbe però garanzia rispetto alle problematiche legate ai tempi di lavoro.
Senza aspettare il Godot di un mercato del lavoro finalmente inclusivo in termini occupazionali e retributivi, si dovrebbe pensare a misure di carattere previdenziale. L’applicazione del contributivo – i cui pregi non vanno affatto minimizzati – non implica che non ci si possa distanziare dalle sue regole rigide in modo trasparente, per far fronte a situazioni che si intendesse tutelare, sulla base di criteri condivisi di giustizia sociale.
Dovendo tutelare ex lavoratori con carriere lunghe e sfavorevoli, l’intervento dovrebbe essere di natura previdenziale e non assistenziale, dovrebbe essere cioè rivolto non agli anziani poveri tout court, ma agli ex lavoratori con pensioni di basso valore. L’intervento – proposto ormai da molti anni come “pensione contributiva di garanzia” – dovrebbe basarsi su una ridefinizione della formula di calcolo delle pensioni che garantisca un livello minimo delle prestazioni, da determinarsi tenendo conto degli anni di contribuzione (effettiva e figurativa) e dell’età di ritiro, in modo da renderlo coerente con la logica del contributivo che mira al make contribution pay.
Lo schema avrebbe il pregio di tutelare esclusivamente chi avesse avuto una carriera lavorativa lunga, ma fragile e potrebbe essere finanziato sia dalla fiscalità generale – comportando un aggravio per il bilancio pubblico nel lungo periodo, negli anni in cui è previsto che la “gobba pensionistica” si riduca – sia internamente al sistema pensionistico, stabilendo una differenza fra aliquota di finanziamento al sistema e aliquota di computo della pensione contributiva individuale, così da creare una forma di redistribuzione solidaristico-assicurativa interna allo schema contributivo.
Ad ogni modo, al di là delle specifiche misure che si possono adottare, il lavoro di analisi e la fornitura di dati da parte dell’Inps ha reso evidente che è urgente dare risposta al problema delle carriere (sempre più) fragili.
*Questo articolo è apparso in contemporanea sul Menabò di Etica ed Economia.
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