Cattolica. “Ricordando Sergio Zavoli”, convegno a Cattolica all’Hotel Kursaal alle ore 17 del 7 novembre.
Ha organizzato il già parlamentare Sergio Zavoli.
Intervengono:
come padrone di casa Daniele Prioli;
il sindaco di Cattolica Franca Foronchi;
il giornalista di Rai Giorgio Tonelli;
l’ex presidente della Provincia della Provincia di Rimini, nonché amico di Sergio Zavoli, Nando Piccari;
Sergio Gambini;
il giornalista dell’Espresso Gigi Riva.
Di Valentina Zavoli. Milano, 21 ottobre 2024.
ZAVOLI RICORDATO DALLA FIGLIA VALENTINA
“Non c’è luogo che non abbia una storia, sta a noi la ricerca di nuove compatibilità tra abitare e natura. Dobbiamo riportare al centro l’intangibile, l’intelligenza dei mondi vitali”.
Così sostengono due urbanisti illuminati come Elena Granata e Andrea Succi. Se di genius loci dobbiamo parlare (un’espressione latina per indicare l’eredità spirituale che gli spazi ci lasciano), quello della mia famiglia inizia un venerdì di settembre del 1923 in Via Cavour 65 a Ravenna, sopra il Caffè dei Cacciatori gestino dal mio bisnonno Edgardo, il 21, quando mio padre è venuto alla luce.
Mia madre invece è nata a Russi, un paesino padano di dodicimila e rotti abitanti incastonato tra Faenza e Ravenna. Vanta il purismo del dialetto, un’antica fortificazione che è stata uno dei tanti rifugi di Stefano Pelloni, detto il Passatore; una maestosa Villa romana del II sec. D.C. di cui però ora rimangono solo i pavimenti e l’aver dato i natali a Luigi Carlo Farini, Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia. Questo per i turisti. Per me rimane impareggiabile il gelato del Circolo cittadino, i trebbi serali con mia nonna Lina e mia Zia Berta, la gioia dell’arrivo dei cugini milanesi Angela e Beppe, il rumore delle tessere del majong- un gioco che si pratica solo in Cina e nella provincia ravennate-, la Fira di Sett Dulur, ennesimo appuntamento italiano in onore di una santa che dà luogo ad abbuffate epiche e giostre profane.
Non vedevo l’ora che finisse la scuola per tornare dalle mie nonne e dagli amici che hanno costellato la mia infanzia fino alla prima adolescenza.
La Romagna ha sempre fatto parte della mia vita. E il suo mare, quello di Marina di Ravenna e di Rimini su cui prendo a prestito le parole di papà:
“L’Adriatico certamente è il mio mare, il mio paesaggio, la mia allegrezza, la mia malinconia, gli stati d’animo più lontani, più giovanili, più sentimentali anche. Però è anche il motivo del ritorno, è la gioia di ritrovare quelle atmosfere, quei colori”.
A proposito di ritorni, ho trovato dietro una foto che lo ritrae con i miei zii Leo e Milly davanti alla casa di famiglia di Rimini nel 1932, la scritta “ritornare con urgenza”. Mi è sembrato molto tenero questo bisogno di scriverlo aggiungendo il punto esclamativo.
C’è una letteratura enorme sul rapporto con i luoghi ma nel caso dei romagnoli credo che la connessione sia particolare. Il detto “puoi strappare un riminese da Rimini ma non Rimini da un riminese” ha secondo me, come tutti i motti popolari, una dose di autenticità maggiore che in altri posti.
Gli zii riminesi avevano un negozio di abbigliamento per bambini adiacente a Piazza tre Martiri, in centro città. Molti pomeriggi li passavo in negozio e a volte “scappavo” a girovagare nei dintorni senza allontanarmi troppo sotto il vigile e sempre allarmato controllo di mia cugina Barbara. Tra le meravigliose vestigia romane ho sempre preferito l’Arco di Augusto che mi sembrava un enorme e severo monito di austerità alla città: da lì non si percepiva il boom dell’eroina né la frenesia della vita notturna allora in auge nelle discoteche di moda.
Sottrarre all’usura del tempo una generazione è impresa ardua anche per chi, e non è il mio caso, ha dimestichezza con la scrittura. Credo che il mio “lessico familiare” per dirla alla Natalia Ginzburg (un romanzo autobiografico del ‘63 ancora oggi davvero attuale), riguardi alcune parole che, come in tutte le lingue, portano con sé un mondo. Per mia madre credo sia stata fedeltà, ad un ideale, ad una terra, ad un uomo. Per mio padre ritengo che abbiano avuto importanza due termini: lontananza e responsabilità.
Della prima lascio parlare lui, nella poesia tratta dalla raccolta L’infinito istante (Mondadori, 2013):
Non so cos’è successo, stanotte,
quando il silenzio è sceso
nell’attesa che il sonno mi portasse
davanti a un tribunale ogni volta
che vi abbandonavo, padre e madre,
e per vedervi socchiudevo gli occhi.
Ma qui mi vogliono i miei morti
E nulla andrà perduto nell’assenza
Che ci separa, qui resterà la prova
D’essere stati tolti al buio e portati
Alla luce insieme con le albe e gli uccelli
Il sole e il vento, la luna e le maree.
Poi tutto prenderà la sua vita,
l’albero chiamerà i rami scompigliati,
dai nidi chiederanno i ritorni
e sarà tutto un volo.
Qui ho preso l’abitudine di vivere,
e parlo con la voce del mio branco.
Della seconda vorrei recuperare il suo senso etimologico: “di chi risponde delle proprie azioni sapendone spiegare le ragioni e accettandone le conseguenze” si legge sulla Treccani. Sul tavolo dove lavorava c’era sempre una voluminosa e ormai desueta (gli facevo notare con una punta di protervia di cui oggi mi pento) schiera di vocabolari, sinonimi e contrati, garzantine. Tutte ausili ormai quasi definitivamente sostituiti dal web. Ricordo soventi telefonate con gli amici -oltre a quelle all’alba con Federico per raccontarsi i reciproci sogni notturni- (Antonio Patuelli, Nando Piccari, Federico Fellini, Ennio Cavalli, Demos Bonini etc) per i ragguagli delle novità politiche e sociali romagnole. Lo vedevo felice durante la sua prima campagna elettorale prodromo di quasi tre lustri di senatorato.
Al cimitero monumentale di Rimini, dove riposa (ma è un termine che non mi piace, sa di rassegnazione, userei “si gode lo spettacolo”) accanto al suo amico Federico, tra le altre avevo piantato – su consiglio di Elio Fabbri, amico di vecchia data ed esperto floricultore dal cuore d’oro, responsabile della Cooperativa sociale punto verde ora in cerca nuove fortune-, un piccolo cespuglio dorato, una graminacea filante dal color del grano che ondeggiano su tutte le spiagge romagnole. Un giorno un solerne impiegato sistemando il seccame che le estati torride producono, l’ha buttata, forse pensando che un seme di una pianta così volgare avesse attecchito lì per sbaglio. Ne ho ripiantate altre due e spero che vengano scompigliate per sempre dalle stagioni e che papà ne possa percepire il loro dono “insieme con le albe e gli uccelli, il sole e il vento, la luna e le maree”.












