di Giovanni Lentini
Chi ha vissuto il carcere può comprendere come il tempo vuoto, la mancanza di mobilità, il continuo ripetersi di giorni contrassegnati dalla noia, nonché le privazioni delle cose più scontate per il resto degli esseri umani possano provocare sull’uomo la perdita del suo proprio significato, ossia del senso del suo esistere. Questo avviene, poiché in carcere l’individuo frantuma il proprio sé, comportando con ciò un incipiente affacciarsi dell’idea del “nulla”, da cui egli si può salvare solo se riesce a reagire “re-inventandosi”, trasformandosi, perché se tale cambiamento non avvenisse, l’individuo scomparirebbe, essendo di fatto annullato.
Vivere in carcere è oggettivamente un’esperienza dissociante, alienante, degradante, perché di fronte alla mancanza costante dei propri affetti, della gestione del proprio tempo, di fronte alla più assoluta impossibilità di dare un reale significato alla propria vita, vivere degnamente e da uomo, è compito arduo e per alcuni sfortunati talvolta impossibile.
Spesso chiedo ai miei compagni detenuti: cosa potremmo fare per riprenderci in mano la nostra vita? Quali risorse potrebbero darci le istituzioni per mettere le nostre risorse umane al servizio della comunità?
Ecco questi interrogativi potrebbero contenere i germi di una rivoluzione del sistema giuridico e penitenziario, un ribaltamento del sistema, che tanti operatori e detenuti, dovremmo iniziare a organizzare nel quotidiano.
Forse, proprio passando da una pena retributiva, che restituisce al male altro male, ad una concezione riparativa nella quale il reo è uno dei soggetti attivi e promotori del cambiamento, potrebbe essere la soluzione.
Ma prima di tutto dovremmo essere convinti tutti, detenuti, operatori penitenziari e cittadini liberi, che un uomo non è mai tutto in un gesto, il reo non è solo il suo reato, ma un individuo con delle risorse che possono essere messe al servizio del bene comune.











