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Home Economia

Quei due bonus che non badano a spese

Redazione di Redazione
5 Giugno 2020
in Economia, Focus
Tempo di lettura : 4 minuti necessari
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Tratto da lavoce.info

di  Simone Ferro, ricercatore della Queen Mary University of London

I bonus permetteranno di effettuare ristrutturazioni edilizie senza sborsare un euro. L’intento è nobile, ma l’aliquota al 110 per cento elimina gli incentivi a mantenere prezzi competitivi e rischia di rivelarsi una fonte di spreco di denaro pubblico.
Come funzionano ecobonus e sismabonus
Dopo il prezzo di stato per le mascherine, il governo propone una nuova sfida alla teoria degli incentivi con le detrazioni al 110 per cento, questa volta eliminando la competizione sul prezzo e permettendo alle imprese di determinare il loro compenso in maniera arbitraria, a spese dello stato.
I bonus rispondono al nobile intento di sussidiare interventi volti a migliorare l’efficienza energetica (di almeno due classi), l’installazione di pannelli fotovoltaici e di colonnine per le auto elettriche, oppure volti a ridurre il rischio sismico degli edifici.
La norma risponde al condivisibile obiettivo di unire il rilancio dell’edilizia e l’emersione del nero all’ammodernamento degli immobili sotto il profilo della tenuta sismica e dell’impatto ambientale. Nonostante gli ingenti costi per lo stato, stimati in circa 14 miliardi nei prossimi 5 anni, prevede il finanziamento dei soli lavori svolti entro il 2021.
Si tratta di fatto di un potenziamento temporaneo di bonus già esistenti nella forma di detrazioni, che il beneficiario può utilizzare per abbattere le imposte dovute nell’arco di 5 anni. Per facilitare il godimento del bonus, il legislatore ha anche previsto la possibilità di lasciare direttamente il credito all’impresa che effettua i lavori, in cambio di uno sconto in fattura.
Gli effetti della detrazione al 110 per cento
I bonus non rappresentano dunque una novità. Tuttavia, l’ammontare delle detrazioni si era sempre mantenuto intorno ai due terzi della fattura, lasciando una parte del costo dell’opera a carico del diretto beneficiario.
Un’aliquota inferiore al 100 per cento ha finora garantito il mantenimento di quei meccanismi di mercato che impediscono alle imprese di gonfiare i prezzi a piacimento e, come la franchigia nel mondo assicurativo, risponde alla logica economica allineando gli incentivi dello stato-principale a quelli dei compratori-agenti.
Con l’aliquota al 110 per cento, il committente potrà ora optare per uno sconto in fattura pari alla totalità dell’importo, evitando di sborsare un singolo euro all’impresa, che così ottiene un credito d’imposta pari al valore dei lavori e cedibile alle banche in cambio di un pagamento immediato.
Il prezzo dei lavori diventa dunque irrilevante per il committente, che non avrà incentivo a valutare preventivi più economici, contrattare sul prezzo o anche solo a verificarne la ragionevolezza.
Con la successiva cessione del credito agli istituti finanziari, lo stato di fatto rimborsa le imprese tramite le banche per un ammontare che non sarà il risultato dell’interazione tra domanda e offerta, bensì arbitrariamente determinato da chi svolge i lavori. A voler pensar male, si potrebbe addirittura ipotizzare un accordo tra committente e impresa per far rientrare nei costi altri lavori di ristrutturazione.
Il decreto prevede tetti di spesa per tipo di intervento e una certificazione di congruità, ma i limiti sono molto ampi e non possono certamente tenere conto delle specificità di ogni lavoro. E l’idea di affidare la valutazione di congruità del prezzo a un tecnico e non alla libera contrattazione è piuttosto ingenua. Certo, le pesanti sanzioni, anche penali, a cui vanno incontro i tecnici che certificano prezzi incongrui rappresentano un argine alla discrezionalità, ma data l’impossibilità di normare con precisione il valore effettivo di ogni intervento rimarranno sempre margini, che non potranno essere eliminati fintantoché non verrà ripristinato l’interesse del compratore nel prezzo.
Ma anche ipotizzando che le verifiche di congruità impediscano alle imprese di gonfiare i costi, il meccanismo elimina l’incentivo a bilanciare qualità e prezzo del lavoro, cosicché per il compratore resta sempre e comunque conveniente la soluzione di più alta qualità, a prescindere dal costo delle alternative. Paradossalmente, le imprese che offrono soluzioni più economiche potrebbero risultare addirittura spiazzate, dato che il risparmio che offrono diventa del tutto irrilevante.
Un bonus così concepito andrà a probabile vantaggio delle imprese più disposte a gonfiare i compensi e rischia di penalizzare quelle che hanno puntato su prezzi competitivi. L’effetto sui prezzi dei lavori, sempre che “prezzi” sia ancora il termine corretto in tale contesto, è facilmente prevedibile.
Lo spreco di denaro pubblico non è mai giustificato
In discussione non è l’intento della misura, che è condivisibile, bensì il metodo. La speranza non è dunque un passo indietro sul fronte delle politiche ambientali, bensì in una modifica del provvedimento per aumentarne l’efficacia, ad esempio riducendo l’aliquota per lasciare almeno una parte del costo a carico del committente, e in cambio ampliare la platea dei beneficiari a gettito invariato. Altrimenti, non resta che rassegnarsi a una ulteriore distorsione dei meccanismi di mercato, con buona pace dei “liberisti da divano” e della teoria degli incentivi.
Ma forse il discorso andrebbe allargato, ricordando che anche i governanti, come i governati, rispondono a incentivi: con la poderosa linea di credito a basso costo garantita dalla Banca centrale europea, è naturale – e in parte anche lecito – che i governi si indebitino per superare la crisi. Nel valutare i provvedimenti e le loro falle, sarebbe però opportuno tenere a mente che il flusso di liquidità prima o poi dovrà invertirsi e che il peso di questo ulteriore debito ricadrà inevitabilmente sulle spalle delle generazioni future, già eccessivamente gravate.
Investire sull’ambiente è oggi più che mai necessario, ma è importante farlo in maniera ragionata, cercando di ricavare la massima efficacia dal denaro speso. E se è vero che drastici interventi a deficit sono certamente giustificati dalla congiuntura storica, lo spreco di denaro pubblico non lo è mai. Ma forse il raggiungimento di questa consapevolezza fa parte di una “fase 3” che ancora non vediamo arrivare.

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