DI RONY HAMAUI, professore a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
L’attuale crisi energetica è essenzialmente una crisi europea. La risposta deve quindi essere europea. E deve agire sia sul fronte industriale sia su quello fiscale. Per abbassare i prezzi oggi e avere soluzioni sostenibili domani.
Una crisi diversa dalle altre
La crisi energetica è pesantemente entrata nel dibattito economico e politico. Tutti i partiti stanno chiedendo al governo d’intervenire urgentemente, mentre l’Unione europea ha indetto un vertice straordinario dei ministri dell’Energia per il 9 settembre. Per definire quali interventi realizzare è bene tuttavia comprendere a pieno la natura di questa emergenza, che appare alquanto diversa dalle precedenti crisi petrolifere degli anni Settanta.
Contrariamente all’opinione comune, negli ultimi mesi sia il prezzo del petrolio che delle altre materie prime ha conosciuto un drastico ridimensionamento. Ad esempio, le quotazioni del Wti, punto di riferimento per il mercato petrolifero americano, così come quelle del Brent, estratto dal Mare del Nord, sono passate da oltre 120 dollari al barile di giugno a rispettivamente 88 e 94 dollari. Anche i prezzi del rame e degli altri metalli ferrosi e non ferrosi sono calati di oltre il 25 per cento negli ultimi tre mesi. Solo i prezzi delle materie prime agricole mostrano un certo incremento.
Il rallentamento del ciclo economico mondiale e la crescita dei tassi d’interesse spiegano questa dinamica. Poiché entrambe le cause sono destinate a perdurare o addirittura a consolidarsi nei prossimi mesi è probabile che altrettanto faccia la domanda di materie prime non agricole, così come i loro prezzi. Inoltre, poiché il dollaro, dopo la cavalcata di questi mesi, appare estremamente sopravvalutato, non è impossibile che la quotazione dell’euro possa riprendersi, raffreddando ulteriormente i prezzi delle materie prime espressi nella moneta europea.
È bene, tuttavia, ricordare che il prezzo del gas, che tanto turba le nostre tasche e i nostri sogni, diversamente dal passato non solo si è mosso in maniera asincrona rispetto alle altre materie prime energetiche, ma non è neppure salito in maniera omogenea in tutte le parti del mondo. Infatti, nell’ultimo anno negli Stati Uniti è triplicato, mentre in Europa è aumentato di quasi venti volte. Si è così aperto un enorme spread nel prezzo del gas fra le due sponde dell’Atlantico e, seppure in misura inferiore, fra l’Europa e l’Asia. Le differenti dinamiche, che per altro avevano cominciato a manifestarsi lo scorso anno, si sono ampliate a partire da febbraio a causa dei problemi alle importazioni del gas russo.
Le forze dell’arbitraggio internazionale non sono riuscite a controbilanciare gli spread poiché i costi di trasporto del gas sono molto alti, ma soprattutto perché esistono molti vincoli tecnologici al suo commercio. Se, infatti, il mercato europeo del gas è abbastanza ben interconnesso grazie a una vasta rete di gasdotti, la scarsità di rigassificatori non permette all’Europa di godere della necessaria flessibilità in termini di offerta dal resto del mondo. Questo fa sì che la crisi energetica sia essenzialmente una crisi europea. La sua natura idiosincratica la rende per molti versi, almeno nel breve periodo, più difficile da gestire, dato che le aziende energivore europee non riescono a scaricare sui prezzi i loro maggiori costi senza subire la concorrenza estera ed è più difficile definire una strategia internazionale poiché molti paesi, anche sviluppati, traggono importanti benefici dal caro energia.
Il carattere europeo della crisi energetica trova una ulteriore conferma nel fatto che l’Unione europea ha deciso di fissare il prezzo dell’elettricità utilizzando il cosiddetto meccanismo di Marginal pricing o Pay-as-clear. Questo rende la rete elettrica molto stabile, perché garantisce l’incontro fra domanda e offerta e favorisce la transizione energetica verso le rinnovabili, che hanno un costo marginale pari a zero, ma finisce per legare il prezzo dell’elettricità a quello (marginale) del gas, oggi non più stabile e a buon mercato come un tempo.
Poiché la crisi energetica europea con ogni probabilità durerà a lungo, è indubbio che l’Europa rischia di entrare, o forse è già entrata, in una grave recessione o meglio stagflazione, dato che gli altissimi prezzi dell’energia non possono che tenere alta l’inflazione. Infine, vale la pena ricordare che la dimensione dell’aumento del prezzo del gas rende i bilanci pubblici nazionali, già provati dalla pandemia, del tutto inadeguati a lenire il problema. Basti a questo proposito ricordare che solo in Italia per avvicinare il prezzo del gas a quello americano servirebbero più di 150 miliardi di euro all’anno.
Le risposte possibili
Se la crisi energetica ha una dimensione europea, le risposte non possono che essere europee. Ma cosa dovrebbe fare l’Unione per uscire da questa difficile situazione? Le direttrici degli interventi dovrebbero essere almeno due: una di politica industriale e l’altra di carattere fiscale.
Sul fronte industriale è fondamentale riattivare le forze dell’arbitraggio internazionale attraverso la messa in funzione di molti rigassificatori e un coordinamento degli acquisti di gas sul mercato internazionale. Nei mesi scorsi, troppi paesi europei si sono messi a concorrere tra di loro per accaparrarsi il gas dai paesi extra-europei facendo lievitare ulteriormente i prezzi. È inoltre importante trasformare, almeno temporaneamente, il meccanismo di formazione dei prezzi all’ingrosso dell’elettricità utilizzando una formula che guardi più al costo medio di ciascuna fonte energetica. È poi assolutamente necessario accelerare i processi autorizzativi degli impianti di energie alternative, ancora troppo lunghi e farraginosi. Gli incredibili incentivi che il sistema tariffario elettrico ha oggi implicitamente concesso al settore non si sono trasformati in altrettanti investimenti, dati i vincoli di natura amministrativa.
Sul fronte fiscale, poi, l’Europa deve mutualizzare gli aiuti a famiglie e imprese selezionando con attenzione i beneficiari. Senza, importanti risorse pubbliche, qualsiasi forma di price-cap rischia di essere difficile da attuare, se non controproducente. Solo così si può sperare, nel breve periodo, di riuscire a invertire le aspettative del mercato e quindi i prezzi dell’energia; e nel lungo periodo di avere soluzioni sostenibili.
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