Tratto da lavoce.info
Di Massimo Bordignon, professore ordinario di Scienza delle Finanze presso l’università Cattolica di Milano
e Leonzio Rizzo, professore ordinario di Scienza delle Finanze a Ferrara
Con l’autonomia differenziata non diminuiranno le risorse per il Sud. Preoccupa invece la mancanza di criteri per l’attribuzione delle materie. E il fatto che in futuro a decidere sui finanziamenti sia una commissione paritetica tra governo e singola regione.
Le critiche alla legge Calderoli
Nell’ultima settimana abbiamo assistito a un vivace confronto tra maggioranza e opposizione sulla legge approvata recentemente sull’autonomia differenziata, la n. 86/2024. L’opposizione si è già mobilitata per un referendum abrogativo. Le motivazioni e preoccupazioni sembrano riguardare essenzialmente la possibilità che una parte maggiore di risorse rispetto a quella attuale vada alle regioni del Nord: visto che la legge impone assenza di aggravio per le finanze pubbliche, ciò implicherebbe che diminuiscano i fondi per le regioni del Sud. Un’ attenta analisi della legge, tuttavia esclude questa possibilità, a meno che non si contempli la possibilità che il governo nella fase attuativa non rispetti i vincoli imposti dalla stessa legge. Se lo facesse, sarebbe ben grave. Casomai, andrebbe sottolineata la difficoltà pratica di attuare la nuova distribuzione di risorse che la legge richiede, basata su costi e fabbisogni standard per i vari servizi (conseguenti all’attuazione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni).
Ma i problemi veri della legge sull’autonomia differenziata sono in realtà altri, di cui poco si discute. Vediamo i due principali.
Le commissioni paritetiche
Un primo tema riguarda la previsione, contenuta nella legge, di commissioni paritetiche bilaterali che ogni anno, e ciascuna in modo indipendente dall’altra, definiscono in una contrattazione tra stato e la singola regione la compartecipazione ai tributi erariali che dovrebbe garantire il finanziamento delle funzioni delegate alla regione stessa. Poiché ogni regione può chiedere un insieme diverso di funzioni su diverse o sulle stesse materie, la potenziale complessità del sistema che ne risulta è enorme.
Per esempio, nel caso in cui si convenga su un aumento del fabbisogno per una particolare funzione attribuita a una particolare regione, questo dovrà essere riflesso nelle risorse da destinare a tutte le altre regioni, dato il vincolo dell’invarianza finanziaria e dovrà tenere conto anche del vincolo di bilancio nazionale. Come può funzionare un sistema simile con potenzialmente 15 diverse commissioni paritetiche su 15 insiemi differenziati di funzioni su diverse materie? E in realtà, 21, perché da un punto di vista logico si dovrebbero considerare nella partita anche le cinque regioni a statuto speciale (con il Trentino-Alto Adige diviso nelle due province autonome di Trento e Bolzano). Le regioni a statuto speciale hanno funzioni tutte diverse e anche un sistema di finanziamento diverso (le compartecipazioni sono ad aliquota fissa, benché anch’esse partecipino al consolidamento delle finanze pubbliche), ma anch’esse dovranno rispettare i Lep, una volta che questi siano definiti. Come minimo, parrebbe necessaria una struttura nazionale che coordini il funzionamento di tutte le commissioni paritetiche e monitori la situazione finanziaria di tutte le regioni d’Italia.
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Inoltre, come decidono queste commissioni paritetiche? La legge non lo specifica. Ma è rischioso, perché si può ben immaginare che una regione che veda le entrate dalle proprie compartecipazioni superare la spesa per le funzioni devolute resista all’ipotesi di restituirle allo stato, come in teoria dovrebbe fare sulla base della legge. Chi decide in questo caso, lo stato o la regione?
Le materie da affidare alle regioni
Il secondo tema, forse ancora più importante, riguarda l’opportunità di decentrare funzioni nelle ventitré materie potenziali. La teoria economica suggerisce che una politica dovrebbe essere decentrata quando 1) influisce solo localmente e non crea esternalità su altri territori limitrofi 2) le preferenze dei cittadini residenti sono simili all’interno dei diversi territori, mentre differiscono da un territorio all’altro e infine 3) quando non produce economie di scala, tali da generare importanti risparmi di costo nel caso in cui le decisioni vengano prese a livello nazionale. Ora, anche un rapido sguardo alle materie potenzialmente «decentrabili» dopo la quantificazione dei Lep, che dovrebbe avvenire nei prossimi due anni, suggerisce che ce ne siamo molte che non soddisfano questi criteri e che dovrebbero essere decise a livello nazionale, se non addirittura europeo.
Si pensi ad esempio alla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. È chiaro che non si può pensare a una normativa per l’ambiente che sia valida solo all’interno dei confini regionali, se si vuole che sia efficace. Vi sono poi altre materie come porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, che hanno tutte pesanti ricadute sul territorio nazionale. Vale soprattutto quando, per la fornitura di un servizio, è necessaria una rete che si estende su tutto il territorio nazionale. In questo caso spezzettare la responsabilità della rete nelle varie regioni potrebbe portare a una gestione meno efficiente di quella garantita da un decisore nazionale.
Ma anche tra le nove materie su cui si è deciso che non sono necessari i Lep e su cui le regioni possono quindi già inviare le loro richieste (come già hanno annunciato di voler fare subito Veneto, Piemonte e Lombardia), ce ne sono molte che suscitano perplessità. Per esempio, il trasferimento del potere di regolamentazione nel commercio con l’estero, tutela e sicurezza del lavoro, previdenza complementare e integrativa, banche di interesse regionale. In un paese con un tessuto economico territorialmente integrato, un’impresa che operi a livello nazionale, magari con diverse succursali nelle varie regioni, si potrebbe trovare ad affrontare situazioni con diversi accordi commerciali con l’estero a seconda della regione ove opera o a differenti normative sulla sicurezza del lavoro e di previdenza complementare. Ciò creerebbe confusione e difficoltà nel raggiungere equilibrate decisioni di investimento. Si potrebbe inoltre innescare un processo di competizione tra regioni, che spinga per esempio alcune ad abbassare gli standard sulla sicurezza sul lavoro o a proporre regolamentazioni più convenienti per attrarre investimenti. Per non parlare degli istituti di credito, dove addirittura dal momento dell’entrata in vigore del nuovo Titolo V la regolamentazione è in buona parte transitata a livello europeo; non avrebbe molto senso trasferirla a livello regionale. E si potrebbe continuare a lungo.
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Il problema è che la legge non contempla alcun criterio per decidere se ha senso o meno delegare una particolare funzione alle regioni; tutto è demandato alla contrattazione politica tra gli esecutivi, con il Parlamento che si limita ad approvare le intese raggiunte. Il rischio che si decentri troppo e male è dunque molto serio.
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